Il piacere della condivisione nellillusione dei like Pattini

Il piacere della condivisione nell’illusione dei “Like”. Meglio apparire o essere autorevoli?

Contributor: Elena Pattini, PhD – Psicologa, VP Comitato Scientifico Kindacom

Il bisogno di relazionalità dell’essere umano lo spinge alla condivisione. E’ così da sempre.  Siamo esseri sociali e molte scoperte scientifiche lo dimostrano, basti pensare ai neuroni specchio come substrato fisiologico del comportamento empatico, oppure alla rete di connessioni cerebrali che compongono la default mode network che ci dimostra quanto il nostro cervello sia orientato alla relazione e al pensiero riguardante “gli altri”, anche quando non è impegnato in nessun compito cognitivo. 

Nell’era dei social network, la condivisione passa anche attraverso la sistematica pubblicazione di post e di commenti ai messaggi altrui. Quello che ci spinge a farlo è l’enorme gratificazione che deriva da un “like”: un feedback molto semplice che attiva i nostri meccanismi cerebrali del piacere e ci induce a ricercare nuovamente approvazione, in un meccanismo che può diventare potenzialmente pericoloso quando si sostituisce alla vita reale e alle relazioni reali o quando diventa l’unico metodo di compensazione a frustrazioni relazionali della vita concreta. 

Basta aprire qualsiasi social per notare un’abitudine piuttosto comune, ovvero l’utilizzo di citazioni di altri (poeti, autori letterari, personaggi famosi nel mondo imprenditoriale etc..) come didascalia di proprie foto o come “imprimatur” rispetto a eventi che si vogliono pubblicizzare. Il significato può non essere sempre pertinente, ma comunque il risultato è quasi sempre seducente per ottenere il consenso di chi legge. Così capita di trovare una citazione di Pasolini o di Pablo Neruda in calce, ad esempio, a una foto in costume da bagno, creando un po’ di confusione tra “sacro” e profano. In questi casi, quando la citazione è azzeccata e ben appaiata al contenuto del post, chi scrive sta comunicando di conoscere la fonte e di possedere una certa cultura. Tuttavia, così facendo, non si tiene conto di un particolare: utilizzare il pensiero di altri (seppure di chiara fama e in linea con il concetto che si vuole esprimere), mette in secondo piano o addirittura annulla il proprio pensiero, perché – appunto – l’attenzione viene dislocata sul pensiero prodotto da qualcuno che non è l’autore del post. L’effetto finale è arricchire l’immagine dell’autore citato, ma non di colui che ha scelto la citazione. 

Stessa situazione si verifica quando condividiamo (o “diffondiamo”) un post senza corredarlo di un commento che dica qualcosa di noi. Chi si trova a ricoprire una posizione di prestigio o comunque di responsabilità dovrebbe prestare attenzione alla propria autorevolezza anche sui social, prendendosi cura di come esporre il proprio pensiero e le proprie idee, senza utilizzare esclusivamente quelle di altri. Per farlo occorre conoscere bene i meccanismi dei social e della scrittura via social, differenti da quelli di altri contesti, che vanno dalla tempistica di pubblicazione, alle immagini da scegliere e ai temi di cui parlare. Nulla deve essere lasciato al caso, perché ad esempio un amministratore delegato che parla attraverso le pagine social della sua azienda o del suo brand, sta parlando di sé e contemporaneamente della sua organizzazione. 

Un tipo di comunicazione di questo tipo, se ben curata, rafforza l’autorevolezza di chi scrive fino a farlo diventare un opinion leader nel suo settore. Pensate ad esempio ad un CEO che riposta contenuti di altri sulla leadership: in questo caso sta comunicando qualcosa su cui è sicuramente d’accordo, ma non dice nulla di sé, come “produttore di pensiero”, approvando passivamente un’idea altrui.  Ma un manager in un ruolo di prestigio non può limitarsi a questo, deve essere coerente con la sua identità anche sul web e sui social, in modo da permettere a chi gli si accosta di capirne chiaramente i valori, gli ideali e la qualità dell’agire. 

Esporsi in prima persona ovviamente ha un rischio: quello di essere ignorati (“sono deluso perché il mio post ha preso pochi like”) o anche pubblicamente disapprovati, ma la disapprovazione è un’ulteriore occasione per dimostrare la capacità di mettersi in discussione e di sostenere il proprio pensiero. In entrambi i casi, la reazione comunicherà al pubblico la propria capacità di gestire il conflitto e la solidità delle idee manifestate, se sostenute con argomentazioni ben declinate, e quindi l’esposizione diventerà un’ulteriore possibilità per affermare la propria identità con autorevolezza e consapevolezza. Un concetto che vale per tutti noi, nella vita professionale e personale. 

Concludendo: sapere utilizzare le piattaforme social è una grande risorsa per un professionista, che può trasmettere il valore della propria identità e quello della propria organizzazione attraverso una comunicazione consapevole, senza bisogno di riciclare contenuti altrui o citazioni e senza cercare facili riscontri positivi allineandosi a contenuti applauditi dalla rete, seppur banali. Allinearsi alle dinamiche di un algoritmo può essere una tentazione forte ma molto rischiosa per la propria autorevolezza e per i propri obiettivi professionali. Si rischia di diventare una figura più decorativa che autorevole. Fare la differenza, qui come altrove, vuol dire esprimere un pensiero personale complesso, contestualizzato e argomentato in modo appropriato. 

E la valutazione della qualità del contenuto non dipende dal numero dei “like” che riceve, fortemente dipendenti dagli “umori” di un algoritmo, ma dal contributo che tale pensiero offre al progresso sociale ed economico di una comunità. Probabilmente non è un caso che piattaforme come Facebook e Instagram diano la possibilità agli utenti di nascondere i like. Quindi, a proposito di citazioni: “non dirmi cosa sai, ma dimmi chi sei”, come disse qualcuno.

Elena Pattini bio

Bio Elena Pattini, PhD

Elena Pattini, PhD, Psicologa e psicoterapeuta esperta in empatia e relazione. Dottore di Ricerca in Psicologia, Dirigente Psicologo-Psicoterapeuta presso il Centro per l’Adolescenza e la Giovane Età dell’Ausl di Parma. VP Comitato Scientifico Kindacom Scrittura Strategica. Per anni Assegnista di Ricerca presso il dipartimento di Neuroscienze dell’Università di Parma in stretta collaborazione con il Prof. Giacomo Rizzolatti. Psicologa dello Stress Management Lab di Parma dove si occupa di divulgazione neuroscientifica, analisi del comportamento non verbale e assessment psicologico. Professore a contratto presso la facoltà di Scienze Sociali Università di Parma. Membro del Comitato Tecnico Scientifico della Federazione Italiana Nuoto.


Teatro pubblico ed emozioni Remotti

Teatro, Pubblico ed Emozioni: “Noi siamo lo strumento, il suonatore e la musica”

LE CONVERSAZIONI DI KINDACOM – #1

MARGHERITA REMOTTI, Attrice


A cura di
Alessandra Irene Rancati

Questa conversazione con Margherita Remotti prende spunto proprio da qui e da Fata Morgana, il racconto teatrale, da lei stessa scritto e interpretato, della vita di Christa Päffgen, in arte Nico. Margherita, attrice professionista, tantissimo teatro e collaborazioni con il cinema e la televisione è stata allieva di Micheal Margotta, a sua volta allievo diretto di Lee Strasberg entrambi nomi di eccellenza del panorama teatrale internazionale.

Grazie a Margherita abbiamo toccato aspetti profondi della recitazione che ritornano spesso anche nel nostro lavoro di comunicazione strategica, come i timori, le modalità e i significati per un manager di esporsi pubblicamente, di coinvolgere il team, di costruire relazioni di fiducia con gli stakeholder. Abbiamo approfondito aspetti quasi intimi della professione dell’attore e del senso umano che vi è dietro, come il concetto di mettersi a servizio, di donare qualcosa al pubblico, di prepararsi a quello che si deve affrontare. Il teatro è un banco di prova che può aiutare a trovare molte risposte e a superare paure e limiti. Competenze ed esperienze utili in ogni professione. 

AIR: Margherita, nel mio lavoro di speechwriter affiora spesso con i clienti, anche con i più senior, il timore del palcoscenico. Tu come vivi il palco e la relazione con il pubblico? 

MR: Vi rivelo un segreto: stare sul palco spaventa anche gli attori! Per usare un’immagine un po’ forte, è come lanciarsi con il paracadute: per quanto ti prepari con cura non sai mai se tutto andrà bene. L’attimo prima di andare in scena è esattamente come il momento in cui ci si lancia dall’aereo, un po’ è paura e un po’ è eccitazione. Ma poi vai e voli. Tutti abbiamo paura dell’ignoto, è normale. Dopo averlo affrontato, però, ti senti bene, ti senti vivo. E’ su questo che bisogna concentrare l’attenzione. Quando si pensa al teatro si crede siano gli attori i protagonisti e il pubblico l’ascoltatore passivo di una storia. Invece, è proprio il contrario: il pubblico è il protagonista. L’attore è al servizio della storia e la storia è al servizio del pubblico.

Il concetto di servizio è alla base del nostro lavoro, perché il più grande scopo di un attore, o più in generale di un artista, è servire, ovvero emozionare, toccare l’anima attraverso la sua forma di arte, sia essa la recitazione, la musica, la pittura, la scrittura. Se “tocco” il pubblico ho fatto bene il mio lavoro e, per farlo, io stessa devo essere uno strumento, devo cioè farmi attraversare dall’emozione, devo accettare di non essere protagonista ma di essere a disposizione. 

AIR: Mettersi a disposizione, è un po’ come abbattere la barriera con l’altro, è un impegno. Questa posizione richiama un’altra paura molto forte per chi deve parlare in pubblico, cioè il timore di essere giudicati. Per alcuni è davvero difficile superarlo. Tu come lo affronti?   

MR: Grazie all’autenticità. Quando sei autentico, a quel punto il giudizio non conta. Quando sono in scena, la mia attenzione deve essere sempre sull’altro (il pubblico e/o gli attori con me) e mai su di me o sulle emozioni. Solo a quel punto le emozioni possono fluire creando una connessione fra me e il pubblico. Però, di fatto, non si supera mai totalmente la paura del giudizio, perché per quanto siamo bravi, c’è sempre una parte della nostra mente, anche piccola, che cercherà di captare dei segnali di critica o di consenso. L’importante è cercare, attraverso lo studio e la preparazione, di spostare la propria visione verso il significato più profondo della recitazione, capire cosa significa concentrarsi sull’altro. A me, per esempio, piace ricordare che la prestazione artistica è una forma di dono. Non a caso, in inglese si dice “to give a performance” allo stesso modo in cui si dice “to give a present”. Avendo questo concetto ben chiaro, studio, provo, mi preparo: l’unico modo che conosco per superare la paura del giudizio è infatti lavorare sulle mie competenze e far prevalere la voglia di vivere quell’esperienza unica data da ogni singola rappresentazione. 

AIR: A proposito di esperienza, i tuoi ruoli sono sempre ad altissima intensità emozionale. Come riesci a rappresentare emozioni così forti senza farti travolgere?

La vita è intensa e dobbiamo trasmettere ciò che siamo in maniera onesta e sincera. Non è possibile diventare in toto il personaggio che interpreti, è impossibile essere qualcun altro: il compito dell’attore è dare al pubblico l’illusione di essere quel personaggio, vivendo le circostanze immaginarie dove far scorrere le emozioni. Posso quindi dire che recitare è anche un atto liberatorio, perché nella vita di tutti i giorni indossiamo una maschera e, per assurdo, è proprio un personaggio che può darci l’occasione di ritrovare l’autenticità. Recitare è come un gioco, però le emozioni che rappresento sono mie, sono reali. Se rido o se piango, non sto fingendo, sto davvero vivendo una sensazione che mi fa ridere o piangere. Citando il mio maestro Michael Margotta, allievo diretto di Lee Strasberg: “noi siamo lo strumento, il suonatore e la musica”. 

Voglio che sia chiaro che io non sono le mie emozioni, io le vivo, loro mi attraversano, sono l’essere consapevole che le vive. Trovo divertente e rivoluzionario togliere la maschera e viverle  intensamente. Penso siano una minoranza le persone abituate a mostrare le proprie emozioni. La maggior parte le nasconde o addirittura le rinnega.  

AIR: Nel nostro lavoro di scrittura, non è ammesso alcun margine di errore, cosa che ogni tanto può farti “tremare la penna”. Tu lavori prevalentemente in teatro, un contesto dove non c’è spazio per errori e replay. Come convivi questo aspetto e cosa fai per superarlo?

MR: Personalmente, trovo affascinanti sia il cinema sia il teatro, ma in effetti, in teatro non c’è il regista che ti dice “rifacciamo”. Il cinema è molto guidato dal regista, che decide se la scena va bene oppure no. Il teatro invece è guidato dall’attore, non c’è lo stop. Quindi devi saper gestire imprevisti e situazioni, devi saper calare ciò che accade nella rappresentazione, facendolo tuo. La realtà, come nella vita, resta sempre la tua migliore amica. L’improvvisazione è una parte di questo mestiere, non si può pensare di pianificare tutto, anzi a volte l’imprevisto è una grande opportunità di fare ancora meglio. Devi studiare e approfondire bene. Come fate voi quando scrivete. La preparazione di uno spettacolo risponde alla classica metafora dell’iceberg: il 90% del lavoro è sommerso, mentre il pubblico vede solo il 10%. Le prove, le scenografie, i costumi, il testo, la scelta del regista, le musiche, le immagini non si vedono. E’ un’enorme macchina, che richiede un continuo fine tuning, come uno scrittore che rilegge e corregge le bozze. 

AIR: E di Nico cosa ci dici?

MR: Lo spettacolo su Nico è nato a Parigi proprio da un’improvvisazione, intorno alla quale è poi stato scritto il testo. L’idea è stata di ripercorrere la sua vita, dando risalto ai momenti salienti. La stessa Nico, nella prefazione del suo libro dice esplicitamente che la sua vita è stata banale e, quindi, se qualcuno avesse voluto rappresentarla doveva farlo attraverso i momenti più significativi. L’essenza raccontata in pochi oggetti, in musica e in immagini.

AIR: Chiudo con una domanda assolutamente non originale, ma sono sicura che la tua risposta lo sarà. Perché hai scelto di fare l’attrice?

MR: Molto semplice: penso di essere stata scelta, perché Dio ci dà dei doni e spetta poi a noi ascoltarci e decidere, eventualmente, di farli fruttare. Però non dobbiamo mai farlo per noi stessi, dobbiamo usarli soprattutto per gli altri. Don Fabio Rosini dice “se Dio ti ha fatto così vuol dire che gli servi così” e credo che riassuma bene lo spirito con cui vivo il mio lavoro, nella cui utilità credo profondamente. 

AIR: Grazie Margherita per averci donato qualcosa di te in questa conversazione. Mi porto a casa che, alla fine, tutti noi siamo “solo” un ponte verso il mondo esterno, abitato da coloro che ci circondano nella vita personale e professionale. Non siamo noi i protagonisti, ma devono esserlo i valori che ogni giorno comunichiamo e che formano l’identità unica di ciascuno. Da me e da tutto il team di Kindacom Scrittura Strategica, un sincero augurio per i tuoi progetti artistici. Al prossimo spettacolo! 

 

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Attrice Margherita Remotti

BIO MARGHERITA REMOTTI


Attrice, regista e autrice. Diplomata presso il Centro Teatro Attivo di Milano ha perfezionato le sue competenze presso l’Actor’s Center di Roma diretto da Michael Margotta (membro a vita dell’Actors Studio), dove ha studiato anche con Doris Hicks. Ha approfondito la tecnica Meisner con Tom Radcliffe ed è co-fondatrice della community Actors East a Londra. Dal 2012 è membro dell’Actor’s Center. È stata protagonista in spettacoli teatrali e film indipendenti. Nel 2017 è stata coprotagonista del film “Mothers” con Christopher Lambert e Remo Girone, diretto da Liana Marabini. Nello stesso anno, per il ruolo di protagonista femminile nel film “Shanda’s River”, regia di Marco Rosson, riceve a Los Angeles l’Actors Award come Miglior Attrice in un Thriller e un Award of Merit come Miglior Attrice Protagonista alla Accolade Competition. Dal 2012 insegna recitazione bilingue, in italiano e inglese.


Dal palcoscenico ai social Silvia Castrogiovanni

Dal palcoscenico ai social: quando l'esposizione del CEO diventa strategica

Contributor: Silvia Castrogiovanni – Founder Kindacom Scrittura Strategica

Da qualche tempo ogni anno viene pubblicata sui giornali di settore una particolare classifica dei “CEO più social”, ovvero degli amministratori delegati italiani più seguiti sui social network, in particolare su LinkedIn.

Ovviamente qui il ranking viene costruito sulla base dei follower e di altre metriche quantitative, mettendo in secondo piano elementi fondamentali come i contenuti e la qualità delle relazioni. Una analisi che comunque ci fa capire l’importanza che oggi riveste la comunicazione digitale anche nel campo professionale.

La rete e i social network rappresentano infatti un importante e consolidato completamento della comunicazione offline, che ha delle proprie regole e dei princìpi ben precisi. 

La comunicazione online di CEO e Top Manager, quindi quella diretta e non mediata da testate, giornalisti e media, permette di governare la percezione dell’azienda e la sua “reputazione”, quest’ultima intesa come la somma delle opinioni, giudizi e punti di vista nei confronti dell’azienda stessa. 

Nell’era della trasparenza e del brand activism, la reputazione è per tutti un importante asset che guida la costruzione e la difesa del business. Si tratta quindi di un aspetto delicato e complesso che ha bisogno di una strategia, di una progettualità, di obiettivi chiari e un’attività ben ponderata. 

LinkedIn è il canale dove solitamente transitano i temi più di qualità verso una platea professionale di alto profilo, quindi, chi occupa ruoli apicali ha ormai il dovere e la responsabilità di creare dibattito condividendo le proprie opinioni in modo da farsi conoscere, generare reputazione, autorevolezza e fiducia. 

Per questo, ritengo sia importante, per esempio, che i CEO di realtà chiave per le economie come quelle bancarie si esprimano in merito al proprio settore di riferimento in relazione agli avvenimenti attuali, andando oltre il semplice racconto delle iniziative aziendali, bensì esponendo pareri in grado di trasmettere valori e identità. 

In questo contesto è di vitale importanza fare la distinzione tra comunicazione attiva e passiva. 

Succede infatti che per molti CEO e Top Manager la presenza online si limiti a una comunicazione passiva, ovvero reagire a post e iniziative altrui; quindi, senza veicolare valori e identità come brand ambassador, ma neppure autorevolezza e reputazione, perché non viene espressa una propria opinione nei confronti di un tema attuale o sociale. 

Una comunicazione attiva sui social significa invece creare contenuti di qualità e postare sistematicamente opinioni e approfondimenti tematici, al contrario di quella passiva che è semplicemente mettere like, fare repost o consigliare post di altri. Una attività che, se predominante, rischia di essere riduttiva e poco qualificante. Comunicare in maniera attiva permette invece di mettere in prima linea i propri temi, avvicinare i propri stakeholder e ingaggiarli.

Come già accennato, si tratta di una attività da affrontare con attenzione, che non ha una ricetta per il successo buona per tutti: le strategie e le modalità cambiano caso per caso e spaziano in un mix di contenuti variegati che vanno dalle attività dell’azienda fino a pareri e opinioni. 

La voce del CEO diventa uno strumento in più di comunicazione strategica al servizio delle relazioni dell’azienda e un fattore protettivo della sua reputazione. 

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Bio Silvia Castrogiovanni
Esperta di comunicazione istituzionale, cultura d’impresa e di formazione nel settore delle competenze trasversali con un approccio basato sulle neuroscienze. Ha fondato Kindacom Scrittura Strategica dopo aver maturato una significativa esperienza nel settore bancario e finanziario. È laureata in Management Internazionale presso l’Università Cattolica di Milano.


Il corpo che conversa Rizzolatti

Il corpo che conversa, influenza, accoglie. Anche nella comunicazione digitale

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Contributor: Prof. Giacomo Rizzolatti

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Contributor: Prof. Giacomo Rizzolatti

Analizzando lo spettro degli effetti sull’interlocutore della comunicazione non verbale, che vanno dalla costruzione di legami fino al coinvolgimento vero e proprio, notiamo che, dal punto di vista del linguaggio del corpo, una comunicazione ambigua o contradditoria non massimizza le possibilità di ottenere risposte desiderabili dall’altro.

Una espressione sociale positiva come il sorriso, ad esempio, condivide il meccanismo specchio per cui sia nella situazione in cui sorrido, sia in quella in cui vengo osservato sorridere si attivano determinate aree cerebrali e nella fattispecie un’area denominata Corteccia Cingolata Anteriore (Caruana et al., 2015).

espressione sociale

Applicando questo principio all’ambito organizzativo o aziendale può ad esempio essere estremamente efficace per un manager dare un feedback negativo o critico utilizzando espressioni verbali e non verbali empatiche e sintonizzate con il sentire dell’altro, all’interno di una cornice relazionale positiva in cui dare spazio ai punti di forza accanto a quelli di miglioramento. In questo caso, infatti, il cervello del ricevente attiva le aree che favoriscono il senso di fiducia e lo predispongono ad una risposta positiva ed impegnata.

Oltre il corpo: le opportunità della comunicazione digitale

La pandemia Covid-19 ci ha lasciato l’abitudine alla comunicazione online e a distanza (call, video-call, mail e chat), un’eredità tanto confortevole e funzionale quanto di difficile gestione. 

Le comunicazioni virtuali o mediate e quelle face-to-face si differenziano per la presenza fisica dell’interlocutore. Quando c’è la presenza fisica le interazioni avvengono in un contesto costituito da indizi chiaramente percepibili provenienti dal corpo (postura, espressione facciale, gestualità, tono di voce), mentre nella modalità digitale mancano il contatto fisico e la visibilità.  

La domanda che nasce spontanea è quindi se questa mancanza del “corporeo” e di tutti gli elementi ad esso associati ostacoli la sintonizzazione e la comunicazione a qualche livello. 

E la risposta che diamo è: no, ma a determinate condizioni. 

La comunicazione mediata dagli strumenti digitali, proprio per la mancanza di chiari e forti indizi corporei, determina da un punto di vista neuroscientifico una attivazione del meccanismo specchio meno intensa, questo è certo. Nonostante ciò, le possibilità di risuonare con l’altro, sintonizzarsi e comunicare efficacemente sono garantite dall’uso proprio e consapevole, anche in questo caso, degli strumenti utilizzati e degli elementi comunicativi disponibili. 

le opportunita della comunicazione digitale

Il contesto organizzativo fa largo uso della comunicazione digitale e ciò che potremmo chiederci a questo punto è quale sia la modalità comunicativa da preferire per trasmettere e veicolare messaggi. Esistono mezzi digitali più efficaci di altri dal punto di vista della comunicazione empatica?

Tra i mezzi di comunicazione a distanza più utilizzati troviamo la Mail; un messaggio trasmesso attraverso le parole scritte e completamente privo di indizi fisici e possibilità di visibilità. Per questi motivi la decodifica e il riconoscimento delle emozioni, così immediati in presenza, sono qui piuttosto difficoltosi. Ci sono però alcuni elementi che aiutano e semplificano questo processo.

Similmente a quanto osservato nella condizione face to face, l’uso delle parole può essere anche nella comunicazione a distanza uno strumento strategico per creare sintonizzazione tra chi scrive e chi legge un messaggio. Infatti, leggere, e non soltanto udire, certe parole o espressioni metaforiche o evocative mette il lettore immediatamente nelle condizioni di “risuonare” con il contenuto verbale. Il nostro testo sarà quindi molto più impattante quanto più sapremo “far sentire le parole” dentro l’altro che legge. 

Molta importanza può avere anche la forma grafica che si sceglie di dare al proprio testo. Il carattere maiuscolo, ad esempio, comunemente viene utilizzato con la finalità di enfatizzare o dare rilevanza ad un passaggio nel testo. Da un certo punto di vista è così, il carattere maiuscolo attiva nel nostro cervello le aree visive che vengono coinvolte nell’elaborazione ortografica, ma allo stesso tempo compromette in parte la possibilità di attivare aree come quelle premotorie maggiormente deputate all’elaborazione fonologica e dei processi di più alto livello legati alla comprensione del testo (Choi et al., 2017). 

In altri termini l’uso del carattere maiuscolo nei testi rallenta o peggiora la qualità della comprensione e può generare facilmente fraintendimenti o impedimenti alla comunicazione. Non appare dunque una soluzione strategica e funzionale se il nostro intento comunicativo è trasmettere in modo chiaro un messaggio importante o rilevante.

Un’ulteriore strategia per enfatizzare il tono e il significato del messaggio di testo e comunicare più chiaramente al ricevente l’esatto stato d’animo o mentale è servirsi di icone emotive (emot-icon) come elemento di comunicazione non verbale alternativo all’espressione facciale, gestuale o posturale (Crystal, 2001; Rezabek & Cochenour, 1998; Constantin, Kalyanaraman, Stavrositu, & Wagoner, 2002). 

Alcune ricerche hanno dimostrato che la mancanza di segnali non verbali nella comunicazione virtuale, ad esempio il solo comunicare attraverso chat senza sentire il nostro interlocutore usare un tono della voce ostile, faceva sì che soprattutto durante i conflitti lo stato emotivo dell’interlocutore fosse sovra o sottostimato e portasse reazioni inappropriate (Sasaki e Ohbuchi, 1999). Questo dimostra come sia fondamentale costruire quanto più possibile un contesto coerente e multisensoriale attraverso e attorno al testo scritto per trasmettere messaggi (ed emozioni) chiari e puntuali che non lascino spazio a fraintendimenti.

In tal senso, uno strumento di comunicazione a distanza alternativo appare essere quello della Call telefonica o della VideoCall. In questi strumenti, a differenza della mail o della chat, sono relativamente disponibili sia la possibilità di visibilità, sia indizi fisici come lo sguardo, il tono di voce, la postura del corpo, ecc.; tutti segnali non verbali che rendono maggiormente accurato il riconoscimento dell’emozionalità e la sintonizzazione con l’altro. 

contesto interattivo umano

Si può dunque concludere che creare un contesto interattivo umano inclusivo ed empatico è un prerequisito che ci permette di trasmettere con più facilità i corretti aspetti relazionali insiti in un messaggio esclusivamente testuale, come una mail o una chat.  

Alla luce dei motivi descritti è però opportuno considerare che per comunicazioni che coinvolgono o richiedono un maggiore coinvolgimento emozionale (es. elogi o richiami) devono essere preferite modalità in presenza o, nell’impossibilità, a distanza blended, ovvero che permettano di trasmettere in modo chiaro anche i segnali non verbali. 

Ricordiamo che in ogni messaggio vi è una parte di contenuto e una parte di relazione, data dal modo in cui il messaggio viene trasmesso. Ed è quest’ultima che qualifica e dà forza al contenuto. 


Le tue promesse sempre le stesse Rancati

“Le tue promesse, sempre le stesse” - Comunicare è una responsabilità, un impegno, un dovere

Contributor: Alessandra Irene Rancati – Founder Kindacom Scrittura Strategica

E poi…era il 1973. L’iconica voce di Mina cantava di promesse e regalava speranze. C’erano il governo Andreotti che faceva notizia per l’ingovernabilità e Nixon per la politica del disgelo con Breznev. E poi c’era l’economia italiana – non ancora globale – che si dimenava fra inflazione alle stelle, crisi del petrolio e indebitamento pubblico fuori controllo.

Sembra preistoria. Dopo appena 50 anni viviamo in un mondo trasformato come solo i secoli sanno fare. Una cosa non è però cambiata in questo tempo volato via: la responsabilità delle nostre parole e delle nostre azioni, da cui si determina la nostra buona reputazione e la fiducia che gli altri ripongono in noi.   

Se la lingua di un popolo rappresenta la sua cultura, è interessante notare che in italiano, la reputazione si costruisce e la fiducia si guadagna. Dove costruire e guadagnare sono entrambi verbi che implicano impegno comunicativo, sforzo intellettuale e – appunto – senso di responsabilità. 

Nella complessità del contesto odierno, chi ha visione, competenze, accesso alle informazioni ha una responsabilità in più: iniettare energie positive, idee, soluzioni ed esprimersi sui grandi temi di attualità quali, ad esempio, lo sviluppo economico e sociale, il mondo delle imprese, le sfide legate ai trend evolutivi. 

Ciò significa spendersi pubblicamente per diventare un modello di valore, perché le persone hanno bisogno di confrontarsi con pensieri chiari e proposte di possibili soluzioni ai problemi del momento. Una comunicazione costruttiva, autentica e, soprattutto, coerente fra dichiarato e agito, coinvolge e incanala energie collettive verso obiettivi condivisi.  

Da una recente indagine è emerso che la fiducia dei CEO nei loro più stretti collaboratori è in deciso calo. Mi chiedo se il fenomeno possa essere ricondotto anche a una sorta di abdicazione da parte di molte figure di vertice dal voler essere dei veri Opinion Leader verso i collaboratori, gli stakeholder e la comunità in generale. È vero, si tratta di un impegno aggiuntivo rispetto al governo del business ordinario, che magari non tutti i CEO sono in grado di assumersi in modo naturale, ma è un dovere ormai implicito nel ruolo, che non può più essere derubricato a un grazioso “nice to have”. 

Oggi la cura dell’esposizione pubblica è un lavoro che porta valore e che ha i suoi professionisti.    

Nell’epoca dei social, la portata del comunicare si allarga a dismisura, assumendo valore etico ed economico allo stesso tempo. La rete è uno strumento straordinario per dare risonanza alla propria voce e, più potente è il mezzo, maggiore è l’attenzione che vi si deve dedicare. Avere una presenza attiva in rete, dove non vi è più differenza fra pubblico e privato, è oggi una grandissima responsabilità, perché, se non si mantengono le promesse, qualcuno potrebbe rispondere – con voce molto meno iconica di quella di Mina -: “Non gioco più…me ne vado”.

ALESSANDRA RANCATI

Bio Alessandra Irene Rancati
Esperta di comunicazione executive e di scrittura strategica rivolta a figure manageriali di primissimo livello. Ha fondato Kindacom Scrittura Strategica dopo aver maturato una significativa esperienza nel settore bancario e finanziario. È laureata in Economia bancaria, finanziaria e assicurativa presso l’Università Cattolica di Milano.


valori e relazioni

Valori e relazioni nel business globale

Contributor: Andrea Mennillo,
Founder and Managing Director International Development Advisory, Ltd.
Chairman Fordham University London Centre Advisory Board
Member of Gabelli Business School at Fordham University Advisory Board and Chair of the Globalization Council, New York
Chairman Riviera Airport

Ogni mattina, quando ci svegliamo e leggiamo le notizie, vediamo che nel mondo accade sempre qualcosa di importante. Qualcosa che potrebbe avere impatti inaspettati su di noi, sulla nostra vita e sul nostro lavoro. L’incertezza è ormai una presenza quotidiana, perchè viviamo in una società globalizzata, sempre più interconnessa e complessa. Come abbiamo potuto scoprire negli ultimi tre anni, gli eventi che stravolgono gli equilibri mondiali sono sempre più frequenti e gli elementi da tenere in considerazione sempre più numerosi. Le informazioni circolano velocemente, rimbalzando in un continuo effetto domino.

Come destreggiarsi in uno scenario così complesso? 

Secondo la mia esperienza, sono fondamentali due elementi: relazione e conoscenza.

La relazione è il primo caposaldo del nostro saper fare, perché essere in grado di gestire bene i rapporti con gli altri è una competenza chiave in ogni ambito della nostra vita, sia a livello personale, sia lavorativo. Per molti aspetti, quest’ultimo è proprio l’ambito più delicato, perché condurre un’azienda o portare avanti un’attività professionale richiede di dover mediare fra interessi e bisogni diversi in ottica di reciproca soddisfazione. Un’attività complicata, dove è molto facile commettere errori e quindi fallire nel raggiungere l’obiettivo. Soprattutto se si opera a livello internazionale. Lo sforzo preparatorio deve quindi essere importante, perché se un amico ci può anche perdonare un errore o una leggerezza, una controparte in affari probabilmente non lo farà.

Qui si innesta la conoscenza, che significa imparare, informarsi, approfondire. Lo studio e una solida formazione di base sono il presupposto su cui impostare una costante ricerca di nuove competenze utili al raggiungimento dei propri obiettivi professionali. Ma anche il presupposto a cui aggiungere le abilità che provengono da un’esperienza concreta, costruite nel corso del tempo. Perché le decisioni e le azioni migliori sono sempre quelle consapevoli.

Una professione come la Business Diplomacy, ad esempio, richiede un altissimo livello di preparazione in tal senso. In tanti anni di esperienza in questo campo, ho potuto constatare che gestire relazioni con governi, comunità locali o gruppi di interesse di Paesi anche molto lontani fra loro, richiede doti che si apprendono sul campo, quali equilibrio, avvedutezza e lungimiranza. Si tratta di virtù indispensabili per trasformare situazioni anche molto complesse in opportunità. Tanto più laddove le differenze geografiche e culturali sono significative.  

Durante le attività di mentorship cui mi dedico collaborando con Fordham University, università di New York che si ispira ai principi cattolici dei gesuiti, cerco di passare agli studenti il messaggio che le competenze tecniche sono fondamentali, ma nel lungo termine, vince chi sa costruire relazioni proficue. I giovani studenti di economia che si stanno preparando per le professioni del futuro devono avere ben chiaro questo concetto.  

Così come devono avere ben chiara l’importanza di agire nel rispetto di valori quali lealtà, correttezza, coerenza e discernimento. Sono loro che definiscono la nostra qualità umana e determinano il modo in cui gli altri ci vedono e ci legittimano, cioè la nostra reputazione. E senza una buona reputazione, è difficile costruire relazioni di fiducia. Soprattutto negli affari.

Amennillo

Bio Andrea Mennillo 

Banchiere, Consulente e Mentore è esperto di Business Diplomacy, di infrastrutture e di investimenti privati e pubblici in un contesto globale. Ricopre, e ha ricoperto, importanti incarichi di responsabilità nel settore finanziario e industriale. è stato Presidente o amministratore di istituzioni finanziarie in Italia, Francia, Spagna, Portogallo, Germania, Regno Unito e Irlanda. In qualità di mentore, si spende a livello accademico e sociale per condividere la propria esperienza di vita e professionale agli studenti nella delicata fase di passaggio al mondo del lavoro. Ai giovani vuole offrire occasioni di crescita professionale, ma anche di riflessione umana ed etica. 


2.Specchi che si romponi. I disastri della comunicazione

Specchi che si rompono: i disastri della comunicazione

Contributor: Giacomo Rizzolatti MD,
Professor of Human Physiology
Socio Nazionale Accademia dei Lincei
Foreign Member of the Royal Society
Foreign Member of the National Academy of Sciences, USA

In molti mi chiedono quali implicazioni può avere il meccanismo dei neuroni specchio nella comunicazione nei contesti aziendali e organizzativi.

Per rispondere a questa domanda prendiamo ad esempio situazioni comuni riscontrabili in questi ambiti per comprendere come la conoscenza e l’applicazione dei principi neuroscientifici può aiutarci.

Una difficoltà diffusa e pervasiva negli ambienti organizzativi è rappresentata dall’uso di una comunicazione interpersonale ambigua, contradditoria o reattiva. Tipicamente possiamo trovarci di fronte, ad esempio, ad una situazione in cui un Manager restituisce al collega un feedback che a parole comunica A e con il non-verbale comunica B. Immaginiamoci per esempio un complimento che ci viene offerto da un collega in piedi a braccia conserte sull’uscio della porta dell’ufficio. Con grande probabilità saremo confusi rispetto alle reali intenzioni comunicative del collega; potremmo addirittura pensare che non sia sincero nel complimento che ci sta offrendo perché a parole sta trasmettendo apprezzamento, mentre a gesti chiusura, distanza e diffidenza.

La gestione della postura, della gestualità e della posizione del proprio corpo è fondamentale nella comunicazione. Comunicare distanziandosi fisicamente dall’altro o, al contrario, invadendo lo spazio altrui; comunicare rimanendo seduti dietro lo schermo del PC o non posando lo sguardo sull’interlocutore possono essere elementi rilevanti di disconnessione e cattiva sintonizzazione.  

Capita inoltre che un Manager possa commentare l’operato del collega servendosi di parole o gesti che hanno un impatto non empatico o addirittura punitivo su di lui. Immaginiamo l’uso di parole o frasi non empatiche che non coinvolgono l’altro ma danno istruzioni fredde e asettiche e distanziano come “Non mi importa quanto ci hai lavorato, era importante la precisione qui e avresti potuto svolgere l’attività in mille modi migliori” e notiamo l’effetto invece di frasi come “Posso capire che è un periodo intenso e faticoso, hai sicuramente fatto bene, ma sarebbe importante poter prestare più attenzione ai particolari, ad esempio…”.

Ma da un punto di vista neuroscientifico, perché certi atteggiamenti non funzionano?

Sono solo parole? L’impatto del linguaggio verbale nella comunicazione

Le parole di cui ci serviamo per comunicare hanno in realtà un impatto decisivo sull’altro e possono promuovere o meno la qualità del percepito in senso positivo o negativo.

È noto ad esempio come l’ascolto di parole produca un’attivazione specifica dei centri motori del linguaggio dell’ascoltatore (Fadiga et al., 2002). Ossia ascoltare certe parole (torrido, buono, critico…) predispone i centri deputati al controllo linguistico alla produzione delle stesse parole. Questo supporta l’idea che anche il linguaggio verbale sia un’attività fortemente “incarnata”, che presumibilmente origina dalla comunicazione gestuale. 

Non solo, è possibile anche massimizzare questa sintonizzazione scegliendo accuratamente le parole che rivolgiamo ai colleghi. Il fatto che comprendiamo e ricordiamo meglio le comunicazioni o le frasi che hanno un impatto su di noi è piuttosto intuibile. Ma immaginiamo se questo impatto fosse addirittura fisico.

Alcune ricerche (Richter et al., 2009) hanno dimostrato ad esempio come la presentazione di parole associate al dolore (pizzicare, paralizzato, agonizzante…) o a esperienze negative (disgustoso, ostile, spaventoso…) attivassero regioni cerebrali implicate nella matrice del dolore, ossia quel circuito deputato all’elaborazione degli stimoli dolorosi. Le parole che scegliamo dunque “toccano” letteralmente e possono essere determinanti dell’esperienza dell’altro e questo diventa cruciale ad esempio quando ci troviamo nella condizione di ammonire o dover dare un feedback negativo a qualcuno che già di per sé rappresenta un contesto spiacevole. Quanto più riusciremo ad usare parole e modalità relazionalmente positive, tanto più saremo efficaci da un punto di vista comunicativo.

corteccia somatosensoriale

Similmente pensiamo anche alle espressioni evocative o al linguaggio metaforico che coinvolgono il senso del tatto: “non ti tocca la cosa?”, “Hai toccato con mano, sai cosa significa”, “Ora hai afferrato il concetto”. Questa modalità cattura immediatamente l’interlocutore perché gli permette di “sentire” esattamente dentro di lui la sensazione evocata dalla parola. Le neuroscienze hanno spiegato con certezza questo meccanismo, che si basa sempre su una proprietà specchio, evidenziando l’attivazione della corteccia somatosensoriale dell’ascoltatore in presenza di metafore che coinvolgono i cinque sensi (Lacey S., Stilla R., Sathian K., 2011). 

L’utilizzo del linguaggio metaforico permette di estendere i limiti del linguaggio letterale e descrivere la realtà in un modo immediatamente comprensibile.

In sintesi, ciò che diciamo e come lo diciamo nel contesto lavorativo è determinante nel creare una profonda sintonizzazione e nella trasmissione di senso e significato quando interagiamo con i colleghi. Di contro, l’uso di parole o comunicazioni ambigue, fortemente improntate sulla negatività, non chiare o poco impattanti sono alla base della disconnessione e dell’esperienza di distacco, dolore e lontananza.

giacomo rizzolatti 1029286

Giacomo Rizzolatti si è laureato in Medicina e specializzato in Neurologia a Padova. É diventato Professore in Fisiologia Umana nel 1975. Professore Emerito, responsabile Unità di Neuroscienze del CNR di Parma. Membro dell’Accademia dei Lincei, Academia Europaea, Académie Francaise des Sciences, American Academy of Arts and Sciences e National Academy of Science, Royal Society e Istituto Lombardo.

Ha ricevuto il premio “Feltrinelli” per la Medicina il premio “Grawemyer 2007” per la Psicologia, il Premio Principe delle Asturie, e il Brain Prize for Neuroscience. Ha ricevuto Lauree ad Honorem dall’Università “Claude Bernard” di Lione, San Pietroburgo, Lovanio, Sassari, San Martin di Buenos Aires e Montevideo.

 


Locandina_Coinvolgimento e convincimento: quando il cuore e ragione lavorano insieme

Coinvolgimento e convincimento: quando cuore e ragione lavorano insieme

Contributor: Roberto Marchesini
Filosofo post-umanista
Etologo

Zooantropologo

Il coinvolgimento, nello sport come nel lavoro, fa parte integrante di quell’iniziativa di alleanza che sola può consentire una piena collaborazione nei confronti del motivatore. 

Il coinvolgimento opera insieme al convincimento – l’esplicitazione di obiettivi, valori e strategie da condividere – ma intercetta la persona anche sul piano della compartecipazione affettiva e del sentirsi pienamente parte di una squadra operativa. Convincimento e coinvolgimento sono cioè le due leve che, sinergicamente, consentono di ottenere la partecipazione attiva dei collaboratori e dei fruitori di un servizio. L’uno agisce sulla razionalità del ricevente, mentre l’altro interviene sulla sintonizzazione emozionale e motivazionale della persona. In genere, l’ingaggio viene svolto unicamente sul piano del convincimento, rendendo chiare le strategie e comunicandole ai collaboratori, mostrando eventuali benefici che si possono ottenere attraverso la concertazione, appoggiandosi su valori che possano richiamare un’adesione che è al tempo stesso senso di appartenenza. 

Le strategie di convincimento e il self-ownership

Le strategie di convincimento sono molto utili e per questo hanno visto un ampio sviluppo applicativo negli ultimi decenni, anche attraverso tecniche mirate di comunicazione. Non ho, perciò, alcuna intenzione di sminuirne il valore, ma solo di metterne in luce la parzialità. Si può essere convinti della bontà di un’intrapresa – accettare la tattica di un allenatore, comprendere l’importanza dello studio, avere consapevolezza della necessità di una vita sana, sentirsi impegnati nelle strategie di un’impresa – ma darne un’adesione esclusivamente formale, cioè non partecipata. Se abbiamo compreso che le ragioni del cuore talvolta contraddicono quelle della ragione e che le prime in genere abbiano il sopravvento sulle seconde, allora diventa chiaro che il convincimento non è in grado di compensare un deficit di coinvolgimento. In altre parole, possiamo concordare sull’utilità di studiare o di impegnarci in una certa attività, per poi seguire altre priorità o comunque senza dedicare tutta la nostra attenzione a quel compito. 

Tra le caratteristiche più importanti della soggettività vi è, infatti, la cosiddetta self-ownership, vale a dire il sentirsi titolare della propria esistenza, che il più delle volte si manifesta sotto forma di resistenza al richiamo proposto da un interlocutore. L’appello al dovere morale può avere una qualche utilità, ma si radica a patto di un convincimento molto alto, per esempio la condivisione di valori di un’azienda, poiché ha una base deontologica, e risente altresì del gradiente d’impegno proprio del soggetto. Non basta riconoscere l’importanza della conoscenza e il dovere morale dell’impegno scolastico per suscitare nei giovani la voglia di studiare. In tale aspetto, come in altri, si è data troppa importanza al potere della ragione nella definizione delle scelte che, viceversa, si appoggiano sempre anche su una base di adesione affettiva. 

I fattori del coinvolgimento

Dobbiamo, allora, chiederci quali siano i fattori che attivano il volano del coinvolgimento. 

Rileviamo come in talune attività l’ingaggio sia facilmente ottenibile attraverso un’adesione che si sviluppa su tutti i piani della personalità dell’individuo. Ne citerò due: il piano emozionale e quello motivazionale. Il coinvolgimento è sempre un sentirsi portati emozionalmente in una certa direzione, il sentire cioè che quello che si sta facendo è coerente con il proprio vissuto personale. Quando ciò accade, la fatica non è mai uno sforzo: in questi casi, cioè, non si deve lottare, oltre che con la difficoltà dell’impegno, anche con la resistenza interna. Il coinvolgimento emozionale è radicamento e continuità, non c’è distonia tra i diversi momenti del vissuto. 

Per costruire coerenza emozionale vanno modificati i termini stessi dell’attività e dell’ingaggio, facendo sì che si venga a creare una sorta di unità d’intenti. Tanto nell’attività quanto nell’ingaggio è perciò necessario individuare e consentire un certo spazio di creatività all’individuo, altrimenti si sentirà parte passiva del progetto e proverà emozioni negative che lo allontaneranno. Per favorire il coinvolgimento emozionale è indispensabile che il motivatore abbia capacità di trasmettere fascinazione sull’attività. Sappiamo, infatti, che qualunque compito può essere trasmesso in modo più o meno coinvolgente: tutto dipende da chi ce lo propone e da come lo fa. 

Questo è un aspetto che sempre viene rimarcato come strategico, ma che non è esente da rischi, riconducibili a un transfert troppo forte che lega l’attività al motivatore, perimetrandola in modo esclusivo a quel tipo di relazione. In realtà, è molto più produttivo l’ingaggio empatico, perchè fa sì che il motivatore intercetti le coordinate prospettiche della persona e la aiuti a trovare le migliori condizioni proprio-riferite.  L’altro aspetto riguarda l’ingaggio motivazionale che fa riferimento alle motivazioni intrinseche dell’essere umano, come: il piacere di esplorare, di prendersi cura, di collaborare con gli altri membri del gruppo, di competere con un ente esterno, di raccogliere i dati all’interno di un campo di ricerca, di imitare dei riferimenti accreditati.  

Si tratta di attività che fanno parte della natura umana e che quindi incentivano il desiderare della persona, la sua proattività e la tensione a raggiungere risultati gratificanti. Le motivazioni intrinseche appartengono alla sfera affettiva proprio come le emozioni e sono individuabili come predicati verbali (raccogliere, accudire, imitare, collaborare, competere), atti che presentano un’appetenza implicita e non hanno bisogno di ulteriori incentivi per la loro attivazione. Solo declinando l’attività secondo uno o più di questi predicati, il motivatore può realizzare il c.d. ingaggio motivazionale. Pensiamo, ad esempio, alla maggiore efficacia dell’apprendimento attraverso il gioco.  

Che sia gioco o altra declinazione, è ampiamente dimostrato che solo mettendo insieme ragione e sentimento si potrà ottenere una vera partecipazione a una qualsiasi attività, sia essa un progetto o un percorso di cambiamento.

Prof. Roberto Marchesini
Filosofo
Etologo
Zooantropologo
Direttore della Scuola di Interazione Uomo-Animale (SIUA)

Direttore del Centro Studi Filosofia Post-Umanista

Roberto Marchesini

Filosofo post-umanista, etologo e zooantropologo, è autore di oltre un centinaio di pubblicazioni nel campo della bioetica animale, delle scienze cognitive, della filosofia post-umanista e delle intelligenze artificiali. Tiene, inoltre, conferenze internazionali nelle quali affronta il tema del rapporto uomo-animale. È direttore di Animal Studies. Rivista italiana di zooantropologia.


cervelli che si parlano ma non sono solo parole

Cervelli che si parlano. Ma non sono solo parole

Contributor: Giacomo Rizzolatti MD,
Professor of Human Physiology
Socio Nazionale Accademia dei Lincei
Foreign Member of the Royal Society
Foreign Member of the National Academy of Sciences, USA

L’esperienza della pandemia prima e i conflitti socio-politici poi, hanno innescato un ritorno dirompente dell’attenzione verso la necessità di costruire intorno a sé relazioni positive, sia nel contesto della vita privata, sia nei contesti professionali e organizzativi.

Si tratta di una vera e propria “ri-scoperta”, perché ri-parte dagli elementi costitutivi della comunicazione e li applica in modo nuovo allo scenario modificato.

Ecco quindi che in un qualsiasi contesto relazionale che si mostri come impoverito o maladattivo, comunicare in modo consapevole non può che richiederci di rivalutare quei meccanismi che ci permettono di ripristinare e rinvigorire i nostri scambi interpersonali per ottenerne un beneficio reciproco, in termini di benessere personale e di efficacia operativa.

La comunicazione è un processo di scambio di informazioni attraverso un sistema condiviso, un codice che permette a chi trasmette e a chi riceve di avere un’unica lettura del messaggio.

Questo codice si manifesta attraverso l’osservazione delle azioni degli altri, che possono rientrare in quello che definiamo “comportamento verbale” espresso attraverso le parole, ma anche, e soprattutto, in un “comportamento non verbale”, mediato dal corpo che veicola messaggi attraverso la postura, la posizione nello spazio, la gestualità o la mimica.

Pensiamo ad esempio di poter solamente osservare un collega che lascia una riunione di lavoro. Immaginiamo di osservare il collega che con una postura rigida e con lo sguardo fisso e corrugato esce dalla stanza con passi ampi e decisi, tenendo stretta in una mano una cartella e sbattendo la porta dietro di sé. Con grande probabilità e senza sforzi cognitivi, il suo corpo e i suoi movimenti sono sufficienti ad informarci che il collega, contrariato, sta abbandonando la riunione perché qualcosa lì dentro è andato storto. Riusciamo immediatamente a comprendere cosa sta facendo ed inferire l’intenzione dietro al comportamento.

A questo punto, è importante chiedersi cosa succede al nostro cervello quando comunichiamo.
Come abbiamo potuto “comprendere” tutto questo solo da una semplice osservazione?

Cervelli che si specchiano e che comunicano

Lo comprendiamo perché quando comunichiamo, attiviamo un meccanismo detto di rispecchiamento insito nel nostro cervello, che ci consente una piena comprensione delle azioni sociali. Tale meccanismo, però, funziona bene solo quando chi osserva l’azione già possiede le rappresentazioni motorie corrispondenti.

Cervelli che si specchiano e che comunicano

Alla base di questo meccanismo troviamo i neuroni specchio, una famiglia di neuroni con particolari funzionalità visuo-motorie per la prima volta scoperti in un’area della corteccia motoria dei primati. Durante test interattivi con un gruppo di macachi, è stato osservato che questi neuroni si attivavano sia quando la scimmia eseguiva una particolare azione, ad esempio afferrava un oggetto, sia quando osservava un altro individuo, umano o conspecifico, svolgere la stessa azione.

Si è quindi concluso che la funzione primaria di questi neuroni è quella del riconoscimento e della comprensione del significato degli “eventi motori” altrui, che diventa possibile grazie appunto alla comunione dell’esperienza nostra e altrui.

In altri termini, il meccanismo specchio ci rende capaci di capire le azioni degli altri perché in qualche misura è come se le stessimo facendo noi stessi. Ma non solo, si è successivamente osservato come questi neuroni siano presenti anche in altre importanti aree cerebrali, maggiormente coinvolte nella regolazione emotiva. Questo testimonia come quello dei neuroni specchio sia in realtà un meccanismo globale responsabile della comprensione dell’altro e quindi di quell’abilità di entrare in empatia con lui.

giacomo rizzolatti 1029286

Giacomo Rizzolatti si è laureato in Medicina e specializzato in Neurologia a Padova. É diventato Professore in Fisiologia Umana nel 1975. Professore Emerito, responsabile Unità di Neuroscienze del CNR di Parma. Membro dell’Accademia dei Lincei, Academia Europaea, Académie Francaise des Sciences, American Academy of Arts and Sciences e National Academy of Science, Royal Society e Istituto Lombardo.

Ha ricevuto il premio “Feltrinelli” per la Medicina il premio “Grawemyer 2007” per la Psicologia, il Premio Principe delle Asturie, e il Brain Prize for Neuroscience. Ha ricevuto Lauree ad Honorem dall’Università “Claude Bernard” di Lione, San Pietroburgo, Lovanio, Sassari, San Martin di Buenos Aires e Montevideo.

 


Dott Vita Giuseppe

Riflessioni su una corporate governance per il futuro

Contributor: Dott. Giuseppe Vita,
Presidente Fondazione Accademia La Scala
Presidente Onorario Axel Springer SE
Ex Presidente UniCredit S.p.A., Schering AG, Allianz S.p.A.

Il futuro è oggi. Comincia ancora prima che abbiate finito di leggere questo articolo. Quindi, non bisogna perdere tempo.

Parlare oggi di futuro in ottica di governo societario è impresa ardua. Vediamo ogni giorno come l’attualità ci rovesci addosso eventi imprevisti e imprevedibili, da cui scaturiscono effetti a catena di portata globale, su cui è difficile – se non impossibile – avere il controllo. Eventi, che nessuna persona e nessun modello matematico può prevedere con una sufficiente dose di certezza.

Nella mia lunga esperienza professionale, non ricordo di aver mai sperimentato un contesto così complesso. In questo susseguirsi di rapidi cambiamenti, quali possono essere le implicazioni in materia di governance aziendale?

Il Consiglio di Amministrazione e le sue emanazioni, quali il consigliere delegato, i comitati endoconsiliari, e, a cascata, il top management, sono chiamati ogni giorno a prendere decisioni, definire strumenti e processi, mantenere relazioni e approntare sistemi aziendali finalizzati a una corretta ed efficiente gestione dell’impresa.

La Corporate Governance è un aspetto cruciale per lo sviluppo dell’impresa nel tempo e anche se può sembrare un argomento dedicato ad addetti ai lavori, ne parlano tutti. Negli ultimi tempi se ne parla molto soprattutto in virtù del rinnovato interesse verso la sostenibilità dell’azienda, in particolare riguardo ai criteri ESG (Environmental, Social, Governance).

Dal mio punto di vista, la parola d’ordine in tempi come questi è “lungimiranza”, nel duplice significato di attenzione e di prudenza. Una combinazione che inizia dal dotare l’impresa di sistemi di governo adeguati ad affrontare i rischi generati dal contesto, in termini di processi, struttura operativa e di controllo, nonché di competenze. L’obiettivo è arrivare velocemente a una fase decisionale il più consapevole possibile.

“Il Consiglio deve infatti disporre velocemente di informazioni sintetiche, sempre aggiornate, verificate e focalizzate sugli argomenti importanti”

Una buona struttura di governance è un obiettivo che vale anche per le imprese di medio-piccola dimensione, spesso restìe a investire in tal senso. Le grandi imprese sono in media le più evolute, sia perché devono confrontarsi con rischi e complessità superiori, sia perché nella maggior parte dei casi sono società quotate sui mercati regolamentati e devono quindi rispettare obblighi precisi stabiliti dagli organismi di vigilanza nazionali e internazionali. In materia di governance, le grandi imprese potrebbero quindi fungere da modello per quelle più piccole che ambiscono a crescere nel tempo e ad affermarsi sul mercato.

Se dovessi esprimere la mia visione di governance lungimirante per il futuro, la abbinerei a tre parole: semplificazione, dialogo, stakeholder.

corporate governance
Figura 1: esempio di documentazione ridondante e inutile per la riunione di un Consiglio di Amministrazione

La semplificazione delle procedure è, a mio avviso, un presupposto indispensabile per una governance efficiente che permetta al Consiglio di Amministrazione di lavorare e di fornire gli indirizzi di gestione nel modo più veloce e funzionale possibile. Semplificare le procedure deve avere come fine la costruzione di un flusso informativo rapido e di qualità a favore degli organi di governo. La qualità dell’informazione al CdA è infatti un aspetto su cui ho sempre lavorato molto nel mio ruolo di Presidente di grandi imprese, dal farmaceutico, dall’editoria, al settore bancario e finanziario.

Il Consiglio deve infatti disporre velocemente di informazioni sintetiche, sempre aggiornate, verificate e focalizzate sugli argomenti importanti, in modo da ridurre il tempo speso in letture di memorie spesso ridondanti e da cui è difficile estrapolare gli elementi importanti ai fini decisionali. Ciò significa, nella pratica, predisporre strutture a supporto del CdA in grado di dare il giusto focus agli argomenti di volta in volta importanti e capaci di approfondirli evidenziando gli aspetti di rischio e di soluzione maggiormente necessari per la discussione e la delibera in Consiglio.

Approntare un flusso informativo di qualità, mi rendo conto, è un passo che richiede un investimento importante da parte dell’azienda in competenze tecniche, legali e comunicative, ma è un passo in grado di garantire per lungo tempo ritorni concreti in termini di migliore gestione dei rischi e maggiore competitività sul mercato. Addirittura, in situazioni di contesto di particolare gravità, può essere uno strumento di difesa importante, che può fare la differenza per la sopravvivenza dell’impresa.

Il dialogo, quello interno, è invece un fattore fondamentale per il buon funzionamento della macchina aziendale, sia a livello decisionale, sia operativo. Come è facile immaginare, la buona qualità dei rapporti interni, al pari della qualità informativa, garantisce chiarezza di obiettivi, condivisione delle strategie e fluidità nei processi operativi.

“Il ruolo del Presidente diventa centrale nel mantenere gli equilibri, nel dare supporto al top management e nel promuovere nuove prassi snelle, che agevolino la celerità delle decisioni”

cover corporate governance

Negli anni in cui sono stato presidente di UniCredit, ricordo che mi sono adoperato moltissimo per snellire i processi informativi rivolti al CdA, per allineare le strategie cercando sempre l’equilibrio fra le esigenze degli azionisti, degli altri stakeholder e di quelle della banca, ma anche per organizzare momenti di arricchimento in seno al Consiglio, portando esperti di vari ambiti che potessero fornire nuovi spunti e visioni del futuro utili a favorire il progresso dell’azienda.

Penso sia questa la parte più delicata del ruolo del Presidente di una public company, che non deve, a mio parere, condizionare troppo il top management o entrare nelle scelte di gestione di sua esclusiva competenza, ma deve piuttosto occuparsi di tutto ciò che è “a monte” dell’operatività e occuparsi innanzitutto della strategia a lungo termine. Permettere a consiglieri e management di svolgere il proprio lavoro nelle migliori condizioni, significa anche essere disponibili a un confronto costante con loro.

Infine, gli stakeholder, ovvero i portatori di interesse dell’azienda, i veri protagonisti della vita dell’impresa. Sono loro che permettono alla macchina aziendale di esistere e di funzionare. Sono i clienti, i fornitori, gli azionisti, sono i colleghi che lavorano in azienda a tutti i livelli, sono le istituzioni (a cominciare dal fisco) e il mercato in generale. Si tratta di un insieme di relazioni, spesso intrecciate fra loro, che l’azienda intrattiene con il mondo esterno e interno.

La fluidità e la buona qualità di queste relazioni sono, a mio avviso, il più potente fattore protettivo dell’impresa, così come – viceversa – relazioni approssimative o sfilacciate costituiscono un fattore di rischio, anche importante, per la sua stessa sopravvivenza. La necessità di investire nella cura dei rapporti con gli stakeholder sta diventando sempre più pressante, specialmente oggi che lo scenario è molto instabile ed estremamente fragile. Si tratta di un compito che coinvolge, a titolo diverso, praticamente tutte le funzioni aziendali, a partire da quelle di governo: è vero che al Presidente spetta il ruolo di mediatore fra gli interessi espressi nel Consiglio di Amministrazione, ma è altrettanto vero che un cliente si guadagna o si perde allo sportello di una filiale.

Ogni persona dell’azienda si relaziona con il mondo che ruota intorno all’impresa e, di fatto, ha la responsabilità della cura dei rapporti che intrattiene. Compito degli organi di governo è, non solo dedicare attenzione alle relazioni direttamente sotto la propria responsabilità, ma anche garantire che le persone a vari livelli incaricate possiedano gli strumenti e le competenze indispensabili per una efficace collaborazione con gli stakeholder dell’impresa.

“La necessità di investire nella cura dei rapporti con gli stakeholder sta diventando sempre più pressante, specialmente oggi che lo scenario è molto instabile ed estremamente fragile”.

La corporate governance è materia complessa, è vero. Pensare al futuro nei termini che ho qui esposto, credo sia oggi l’unico modo per affrontare le avversità e competere nel tempo sui mercati nazionali e internazionali.

Il futuro è oggi, e l’oggi è un divenire inarrestabile. Mi piace spesso dire che “ogni giorno ci addormentiamo più ignoranti (nel senso letterale della parola, ovvero il non sapere) di quando ci siamo svegliati al mattino”, perché il mondo, fatto di progresso, di sapere e di accadimenti, non si ferma mai. Diamo ai Consigli di Amministrazione competenze multidisciplinari, visione e impegno. Usiamo bene il presente, soprattutto quando abbiamo la responsabilità di governare un’impresa, dalla cui prosperità dipende il futuro delle persone che vi lavorano e che vi gravitano intorno, a iniziare dagli azionisti.

 

Dott. Giuseppe Vita,
Presidente Fondazione Accademia La Scala 
Presidente Onorario Axel Springer SE
Ex Presidente UniCredit S.p.A., Schering AG, Allianz S.p.A.

Dott Vita

Nato a Favara (AG) il 28 aprile 1935, Giuseppe Vita è laureato con lode in medicina con specializzazione in radiologia. Nel corso della sua carriera manageriale ha ricoperto numerosi incarichi di prestigio fra Italia e Germania. Dal 2012 al 2018 è stato Presidente di UniCredit S.p.A. In precedenza, è stato Presidente del Consiglio di Gestione della società farmaceutica Schering AG (Fino al 2001), Presidente di Allianz S.p.A., Deutsche Bank S.p.A., Banca Leonardo, Hugo Boss AG. E’ stato anche Consigliere di Barilla, Humanitas, Marzotto, Pirelli e RCS.

Oggi è Presidente della Fondazione Accademia La Scala, Presidente Onorario del gruppo editoriale Axel Springer SE, consigliere della Fondazione Deutsche Nationalstiftung e membro del Consiglio di Amministrazione dell’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI).

Dr. Giuseppe Vita su Wikipedia