Valori e relazioni nel business globale
Contributor: Andrea Mennillo,
Founder and Managing Director International Development Advisory, Ltd.
Chairman Fordham University London Centre Advisory Board
Member of Gabelli Business School at Fordham University Advisory Board and Chair of the Globalization Council, New York
Chairman Riviera Airport
Ogni mattina, quando ci svegliamo e leggiamo le notizie, vediamo che nel mondo accade sempre qualcosa di importante. Qualcosa che potrebbe avere impatti inaspettati su di noi, sulla nostra vita e sul nostro lavoro. L’incertezza è ormai una presenza quotidiana, perchè viviamo in una società globalizzata, sempre più interconnessa e complessa. Come abbiamo potuto scoprire negli ultimi tre anni, gli eventi che stravolgono gli equilibri mondiali sono sempre più frequenti e gli elementi da tenere in considerazione sempre più numerosi. Le informazioni circolano velocemente, rimbalzando in un continuo effetto domino.
Come destreggiarsi in uno scenario così complesso?
Secondo la mia esperienza, sono fondamentali due elementi: relazione e conoscenza.
La relazione è il primo caposaldo del nostro saper fare, perché essere in grado di gestire bene i rapporti con gli altri è una competenza chiave in ogni ambito della nostra vita, sia a livello personale, sia lavorativo. Per molti aspetti, quest’ultimo è proprio l’ambito più delicato, perché condurre un’azienda o portare avanti un’attività professionale richiede di dover mediare fra interessi e bisogni diversi in ottica di reciproca soddisfazione. Un’attività complicata, dove è molto facile commettere errori e quindi fallire nel raggiungere l’obiettivo. Soprattutto se si opera a livello internazionale. Lo sforzo preparatorio deve quindi essere importante, perché se un amico ci può anche perdonare un errore o una leggerezza, una controparte in affari probabilmente non lo farà.
Qui si innesta la conoscenza, che significa imparare, informarsi, approfondire. Lo studio e una solida formazione di base sono il presupposto su cui impostare una costante ricerca di nuove competenze utili al raggiungimento dei propri obiettivi professionali. Ma anche il presupposto a cui aggiungere le abilità che provengono da un’esperienza concreta, costruite nel corso del tempo. Perché le decisioni e le azioni migliori sono sempre quelle consapevoli.
Una professione come la Business Diplomacy, ad esempio, richiede un altissimo livello di preparazione in tal senso. In tanti anni di esperienza in questo campo, ho potuto constatare che gestire relazioni con governi, comunità locali o gruppi di interesse di Paesi anche molto lontani fra loro, richiede doti che si apprendono sul campo, quali equilibrio, avvedutezza e lungimiranza. Si tratta di virtù indispensabili per trasformare situazioni anche molto complesse in opportunità. Tanto più laddove le differenze geografiche e culturali sono significative.
Durante le attività di mentorship cui mi dedico collaborando con Fordham University, università di New York che si ispira ai principi cattolici dei gesuiti, cerco di passare agli studenti il messaggio che le competenze tecniche sono fondamentali, ma nel lungo termine, vince chi sa costruire relazioni proficue. I giovani studenti di economia che si stanno preparando per le professioni del futuro devono avere ben chiaro questo concetto.
Così come devono avere ben chiara l’importanza di agire nel rispetto di valori quali lealtà, correttezza, coerenza e discernimento. Sono loro che definiscono la nostra qualità umana e determinano il modo in cui gli altri ci vedono e ci legittimano, cioè la nostra reputazione. E senza una buona reputazione, è difficile costruire relazioni di fiducia. Soprattutto negli affari.

Banchiere, Consulente e Mentore è esperto di Business Diplomacy, di infrastrutture e di investimenti privati e pubblici in un contesto globale. Ricopre, e ha ricoperto, importanti incarichi di responsabilità nel settore finanziario e industriale. è stato Presidente o amministratore di istituzioni finanziarie in Italia, Francia, Spagna, Portogallo, Germania, Regno Unito e Irlanda. In qualità di mentore, si spende a livello accademico e sociale per condividere la propria esperienza di vita e professionale agli studenti nella delicata fase di passaggio al mondo del lavoro. Ai giovani vuole offrire occasioni di crescita professionale, ma anche di riflessione umana ed etica.
Specchi che si rompono: i disastri della comunicazione
Contributor: Giacomo Rizzolatti MD,
Professor of Human Physiology
Socio Nazionale Accademia dei Lincei
Foreign Member of the Royal Society
Foreign Member of the National Academy of Sciences, USA
In molti mi chiedono quali implicazioni può avere il meccanismo dei neuroni specchio nella comunicazione nei contesti aziendali e organizzativi.
Per rispondere a questa domanda prendiamo ad esempio situazioni comuni riscontrabili in questi ambiti per comprendere come la conoscenza e l’applicazione dei principi neuroscientifici può aiutarci.
Una difficoltà diffusa e pervasiva negli ambienti organizzativi è rappresentata dall’uso di una comunicazione interpersonale ambigua, contradditoria o reattiva. Tipicamente possiamo trovarci di fronte, ad esempio, ad una situazione in cui un Manager restituisce al collega un feedback che a parole comunica A e con il non-verbale comunica B. Immaginiamoci per esempio un complimento che ci viene offerto da un collega in piedi a braccia conserte sull’uscio della porta dell’ufficio. Con grande probabilità saremo confusi rispetto alle reali intenzioni comunicative del collega; potremmo addirittura pensare che non sia sincero nel complimento che ci sta offrendo perché a parole sta trasmettendo apprezzamento, mentre a gesti chiusura, distanza e diffidenza.
La gestione della postura, della gestualità e della posizione del proprio corpo è fondamentale nella comunicazione. Comunicare distanziandosi fisicamente dall’altro o, al contrario, invadendo lo spazio altrui; comunicare rimanendo seduti dietro lo schermo del PC o non posando lo sguardo sull’interlocutore possono essere elementi rilevanti di disconnessione e cattiva sintonizzazione.
Capita inoltre che un Manager possa commentare l’operato del collega servendosi di parole o gesti che hanno un impatto non empatico o addirittura punitivo su di lui. Immaginiamo l’uso di parole o frasi non empatiche che non coinvolgono l’altro ma danno istruzioni fredde e asettiche e distanziano come “Non mi importa quanto ci hai lavorato, era importante la precisione qui e avresti potuto svolgere l’attività in mille modi migliori” e notiamo l’effetto invece di frasi come “Posso capire che è un periodo intenso e faticoso, hai sicuramente fatto bene, ma sarebbe importante poter prestare più attenzione ai particolari, ad esempio…”.
Ma da un punto di vista neuroscientifico, perché certi atteggiamenti non funzionano?
Sono solo parole? L’impatto del linguaggio verbale nella comunicazione
Le parole di cui ci serviamo per comunicare hanno in realtà un impatto decisivo sull’altro e possono promuovere o meno la qualità del percepito in senso positivo o negativo.
È noto ad esempio come l’ascolto di parole produca un’attivazione specifica dei centri motori del linguaggio dell’ascoltatore (Fadiga et al., 2002). Ossia ascoltare certe parole (torrido, buono, critico…) predispone i centri deputati al controllo linguistico alla produzione delle stesse parole. Questo supporta l’idea che anche il linguaggio verbale sia un’attività fortemente “incarnata”, che presumibilmente origina dalla comunicazione gestuale.
Non solo, è possibile anche massimizzare questa sintonizzazione scegliendo accuratamente le parole che rivolgiamo ai colleghi. Il fatto che comprendiamo e ricordiamo meglio le comunicazioni o le frasi che hanno un impatto su di noi è piuttosto intuibile. Ma immaginiamo se questo impatto fosse addirittura fisico.
Alcune ricerche (Richter et al., 2009) hanno dimostrato ad esempio come la presentazione di parole associate al dolore (pizzicare, paralizzato, agonizzante…) o a esperienze negative (disgustoso, ostile, spaventoso…) attivassero regioni cerebrali implicate nella matrice del dolore, ossia quel circuito deputato all’elaborazione degli stimoli dolorosi. Le parole che scegliamo dunque “toccano” letteralmente e possono essere determinanti dell’esperienza dell’altro e questo diventa cruciale ad esempio quando ci troviamo nella condizione di ammonire o dover dare un feedback negativo a qualcuno che già di per sé rappresenta un contesto spiacevole. Quanto più riusciremo ad usare parole e modalità relazionalmente positive, tanto più saremo efficaci da un punto di vista comunicativo.
Similmente pensiamo anche alle espressioni evocative o al linguaggio metaforico che coinvolgono il senso del tatto: “non ti tocca la cosa?”, “Hai toccato con mano, sai cosa significa”, “Ora hai afferrato il concetto”. Questa modalità cattura immediatamente l’interlocutore perché gli permette di “sentire” esattamente dentro di lui la sensazione evocata dalla parola. Le neuroscienze hanno spiegato con certezza questo meccanismo, che si basa sempre su una proprietà specchio, evidenziando l’attivazione della corteccia somatosensoriale dell’ascoltatore in presenza di metafore che coinvolgono i cinque sensi (Lacey S., Stilla R., Sathian K., 2011).
L’utilizzo del linguaggio metaforico permette di estendere i limiti del linguaggio letterale e descrivere la realtà in un modo immediatamente comprensibile.
In sintesi, ciò che diciamo e come lo diciamo nel contesto lavorativo è determinante nel creare una profonda sintonizzazione e nella trasmissione di senso e significato quando interagiamo con i colleghi. Di contro, l’uso di parole o comunicazioni ambigue, fortemente improntate sulla negatività, non chiare o poco impattanti sono alla base della disconnessione e dell’esperienza di distacco, dolore e lontananza.

Giacomo Rizzolatti si è laureato in Medicina e specializzato in Neurologia a Padova. É diventato Professore in Fisiologia Umana nel 1975. Professore Emerito, responsabile Unità di Neuroscienze del CNR di Parma. Membro dell’Accademia dei Lincei, Academia Europaea, Académie Francaise des Sciences, American Academy of Arts and Sciences e National Academy of Science, Royal Society e Istituto Lombardo.
Ha ricevuto il premio “Feltrinelli” per la Medicina il premio “Grawemyer 2007” per la Psicologia, il Premio Principe delle Asturie, e il Brain Prize for Neuroscience. Ha ricevuto Lauree ad Honorem dall’Università “Claude Bernard” di Lione, San Pietroburgo, Lovanio, Sassari, San Martin di Buenos Aires e Montevideo.
Coinvolgimento e convincimento: quando cuore e ragione lavorano insieme
Contributor: Roberto Marchesini
Filosofo post-umanista
Etologo
Zooantropologo
Il coinvolgimento, nello sport come nel lavoro, fa parte integrante di quell’iniziativa di alleanza che sola può consentire una piena collaborazione nei confronti del motivatore.
Il coinvolgimento opera insieme al convincimento – l’esplicitazione di obiettivi, valori e strategie da condividere – ma intercetta la persona anche sul piano della compartecipazione affettiva e del sentirsi pienamente parte di una squadra operativa. Convincimento e coinvolgimento sono cioè le due leve che, sinergicamente, consentono di ottenere la partecipazione attiva dei collaboratori e dei fruitori di un servizio. L’uno agisce sulla razionalità del ricevente, mentre l’altro interviene sulla sintonizzazione emozionale e motivazionale della persona. In genere, l’ingaggio viene svolto unicamente sul piano del convincimento, rendendo chiare le strategie e comunicandole ai collaboratori, mostrando eventuali benefici che si possono ottenere attraverso la concertazione, appoggiandosi su valori che possano richiamare un’adesione che è al tempo stesso senso di appartenenza.
Le strategie di convincimento e il self-ownership
Le strategie di convincimento sono molto utili e per questo hanno visto un ampio sviluppo applicativo negli ultimi decenni, anche attraverso tecniche mirate di comunicazione. Non ho, perciò, alcuna intenzione di sminuirne il valore, ma solo di metterne in luce la parzialità. Si può essere convinti della bontà di un’intrapresa – accettare la tattica di un allenatore, comprendere l’importanza dello studio, avere consapevolezza della necessità di una vita sana, sentirsi impegnati nelle strategie di un’impresa – ma darne un’adesione esclusivamente formale, cioè non partecipata. Se abbiamo compreso che le ragioni del cuore talvolta contraddicono quelle della ragione e che le prime in genere abbiano il sopravvento sulle seconde, allora diventa chiaro che il convincimento non è in grado di compensare un deficit di coinvolgimento. In altre parole, possiamo concordare sull’utilità di studiare o di impegnarci in una certa attività, per poi seguire altre priorità o comunque senza dedicare tutta la nostra attenzione a quel compito.
Tra le caratteristiche più importanti della soggettività vi è, infatti, la cosiddetta self-ownership, vale a dire il sentirsi titolare della propria esistenza, che il più delle volte si manifesta sotto forma di resistenza al richiamo proposto da un interlocutore. L’appello al dovere morale può avere una qualche utilità, ma si radica a patto di un convincimento molto alto, per esempio la condivisione di valori di un’azienda, poiché ha una base deontologica, e risente altresì del gradiente d’impegno proprio del soggetto. Non basta riconoscere l’importanza della conoscenza e il dovere morale dell’impegno scolastico per suscitare nei giovani la voglia di studiare. In tale aspetto, come in altri, si è data troppa importanza al potere della ragione nella definizione delle scelte che, viceversa, si appoggiano sempre anche su una base di adesione affettiva.
I fattori del coinvolgimento
Dobbiamo, allora, chiederci quali siano i fattori che attivano il volano del coinvolgimento.
Rileviamo come in talune attività l’ingaggio sia facilmente ottenibile attraverso un’adesione che si sviluppa su tutti i piani della personalità dell’individuo. Ne citerò due: il piano emozionale e quello motivazionale. Il coinvolgimento è sempre un sentirsi portati emozionalmente in una certa direzione, il sentire cioè che quello che si sta facendo è coerente con il proprio vissuto personale. Quando ciò accade, la fatica non è mai uno sforzo: in questi casi, cioè, non si deve lottare, oltre che con la difficoltà dell’impegno, anche con la resistenza interna. Il coinvolgimento emozionale è radicamento e continuità, non c’è distonia tra i diversi momenti del vissuto.
Per costruire coerenza emozionale vanno modificati i termini stessi dell’attività e dell’ingaggio, facendo sì che si venga a creare una sorta di unità d’intenti. Tanto nell’attività quanto nell’ingaggio è perciò necessario individuare e consentire un certo spazio di creatività all’individuo, altrimenti si sentirà parte passiva del progetto e proverà emozioni negative che lo allontaneranno. Per favorire il coinvolgimento emozionale è indispensabile che il motivatore abbia capacità di trasmettere fascinazione sull’attività. Sappiamo, infatti, che qualunque compito può essere trasmesso in modo più o meno coinvolgente: tutto dipende da chi ce lo propone e da come lo fa.
Questo è un aspetto che sempre viene rimarcato come strategico, ma che non è esente da rischi, riconducibili a un transfert troppo forte che lega l’attività al motivatore, perimetrandola in modo esclusivo a quel tipo di relazione. In realtà, è molto più produttivo l’ingaggio empatico, perchè fa sì che il motivatore intercetti le coordinate prospettiche della persona e la aiuti a trovare le migliori condizioni proprio-riferite. L’altro aspetto riguarda l’ingaggio motivazionale che fa riferimento alle motivazioni intrinseche dell’essere umano, come: il piacere di esplorare, di prendersi cura, di collaborare con gli altri membri del gruppo, di competere con un ente esterno, di raccogliere i dati all’interno di un campo di ricerca, di imitare dei riferimenti accreditati.
Si tratta di attività che fanno parte della natura umana e che quindi incentivano il desiderare della persona, la sua proattività e la tensione a raggiungere risultati gratificanti. Le motivazioni intrinseche appartengono alla sfera affettiva proprio come le emozioni e sono individuabili come predicati verbali (raccogliere, accudire, imitare, collaborare, competere), atti che presentano un’appetenza implicita e non hanno bisogno di ulteriori incentivi per la loro attivazione. Solo declinando l’attività secondo uno o più di questi predicati, il motivatore può realizzare il c.d. ingaggio motivazionale. Pensiamo, ad esempio, alla maggiore efficacia dell’apprendimento attraverso il gioco.
Che sia gioco o altra declinazione, è ampiamente dimostrato che solo mettendo insieme ragione e sentimento si potrà ottenere una vera partecipazione a una qualsiasi attività, sia essa un progetto o un percorso di cambiamento.
Prof. Roberto Marchesini
Filosofo
Etologo
Zooantropologo
Direttore della Scuola di Interazione Uomo-Animale (SIUA)
Direttore del Centro Studi Filosofia Post-Umanista

Filosofo post-umanista, etologo e zooantropologo, è autore di oltre un centinaio di pubblicazioni nel campo della bioetica animale, delle scienze cognitive, della filosofia post-umanista e delle intelligenze artificiali. Tiene, inoltre, conferenze internazionali nelle quali affronta il tema del rapporto uomo-animale. È direttore di Animal Studies. Rivista italiana di zooantropologia.
Cervelli che si parlano. Ma non sono solo parole
Contributor: Giacomo Rizzolatti MD,
Professor of Human Physiology
Socio Nazionale Accademia dei Lincei
Foreign Member of the Royal Society
Foreign Member of the National Academy of Sciences, USA
L’esperienza della pandemia prima e i conflitti socio-politici poi, hanno innescato un ritorno dirompente dell’attenzione verso la necessità di costruire intorno a sé relazioni positive, sia nel contesto della vita privata, sia nei contesti professionali e organizzativi.
Si tratta di una vera e propria “ri-scoperta”, perché ri-parte dagli elementi costitutivi della comunicazione e li applica in modo nuovo allo scenario modificato.
Ecco quindi che in un qualsiasi contesto relazionale che si mostri come impoverito o maladattivo, comunicare in modo consapevole non può che richiederci di rivalutare quei meccanismi che ci permettono di ripristinare e rinvigorire i nostri scambi interpersonali per ottenerne un beneficio reciproco, in termini di benessere personale e di efficacia operativa.
La comunicazione è un processo di scambio di informazioni attraverso un sistema condiviso, un codice che permette a chi trasmette e a chi riceve di avere un’unica lettura del messaggio.
Questo codice si manifesta attraverso l’osservazione delle azioni degli altri, che possono rientrare in quello che definiamo “comportamento verbale” espresso attraverso le parole, ma anche, e soprattutto, in un “comportamento non verbale”, mediato dal corpo che veicola messaggi attraverso la postura, la posizione nello spazio, la gestualità o la mimica.
Pensiamo ad esempio di poter solamente osservare un collega che lascia una riunione di lavoro. Immaginiamo di osservare il collega che con una postura rigida e con lo sguardo fisso e corrugato esce dalla stanza con passi ampi e decisi, tenendo stretta in una mano una cartella e sbattendo la porta dietro di sé. Con grande probabilità e senza sforzi cognitivi, il suo corpo e i suoi movimenti sono sufficienti ad informarci che il collega, contrariato, sta abbandonando la riunione perché qualcosa lì dentro è andato storto. Riusciamo immediatamente a comprendere cosa sta facendo ed inferire l’intenzione dietro al comportamento.
A questo punto, è importante chiedersi cosa succede al nostro cervello quando comunichiamo.
Come abbiamo potuto “comprendere” tutto questo solo da una semplice osservazione?
Cervelli che si specchiano e che comunicano
Lo comprendiamo perché quando comunichiamo, attiviamo un meccanismo detto di rispecchiamento insito nel nostro cervello, che ci consente una piena comprensione delle azioni sociali. Tale meccanismo, però, funziona bene solo quando chi osserva l’azione già possiede le rappresentazioni motorie corrispondenti.
Alla base di questo meccanismo troviamo i neuroni specchio, una famiglia di neuroni con particolari funzionalità visuo-motorie per la prima volta scoperti in un’area della corteccia motoria dei primati. Durante test interattivi con un gruppo di macachi, è stato osservato che questi neuroni si attivavano sia quando la scimmia eseguiva una particolare azione, ad esempio afferrava un oggetto, sia quando osservava un altro individuo, umano o conspecifico, svolgere la stessa azione.
Si è quindi concluso che la funzione primaria di questi neuroni è quella del riconoscimento e della comprensione del significato degli “eventi motori” altrui, che diventa possibile grazie appunto alla comunione dell’esperienza nostra e altrui.
In altri termini, il meccanismo specchio ci rende capaci di capire le azioni degli altri perché in qualche misura è come se le stessimo facendo noi stessi. Ma non solo, si è successivamente osservato come questi neuroni siano presenti anche in altre importanti aree cerebrali, maggiormente coinvolte nella regolazione emotiva. Questo testimonia come quello dei neuroni specchio sia in realtà un meccanismo globale responsabile della comprensione dell’altro e quindi di quell’abilità di entrare in empatia con lui.

Giacomo Rizzolatti si è laureato in Medicina e specializzato in Neurologia a Padova. É diventato Professore in Fisiologia Umana nel 1975. Professore Emerito, responsabile Unità di Neuroscienze del CNR di Parma. Membro dell’Accademia dei Lincei, Academia Europaea, Académie Francaise des Sciences, American Academy of Arts and Sciences e National Academy of Science, Royal Society e Istituto Lombardo.
Ha ricevuto il premio “Feltrinelli” per la Medicina il premio “Grawemyer 2007” per la Psicologia, il Premio Principe delle Asturie, e il Brain Prize for Neuroscience. Ha ricevuto Lauree ad Honorem dall’Università “Claude Bernard” di Lione, San Pietroburgo, Lovanio, Sassari, San Martin di Buenos Aires e Montevideo.
Riflessioni su una corporate governance per il futuro
Contributor: Dott. Giuseppe Vita,
Presidente Fondazione Accademia La Scala
Presidente Onorario Axel Springer SE
Ex Presidente UniCredit S.p.A., Schering AG, Allianz S.p.A.
Il futuro è oggi. Comincia ancora prima che abbiate finito di leggere questo articolo. Quindi, non bisogna perdere tempo.
Parlare oggi di futuro in ottica di governo societario è impresa ardua. Vediamo ogni giorno come l’attualità ci rovesci addosso eventi imprevisti e imprevedibili, da cui scaturiscono effetti a catena di portata globale, su cui è difficile – se non impossibile – avere il controllo. Eventi, che nessuna persona e nessun modello matematico può prevedere con una sufficiente dose di certezza.
Nella mia lunga esperienza professionale, non ricordo di aver mai sperimentato un contesto così complesso. In questo susseguirsi di rapidi cambiamenti, quali possono essere le implicazioni in materia di governance aziendale?
Il Consiglio di Amministrazione e le sue emanazioni, quali il consigliere delegato, i comitati endoconsiliari, e, a cascata, il top management, sono chiamati ogni giorno a prendere decisioni, definire strumenti e processi, mantenere relazioni e approntare sistemi aziendali finalizzati a una corretta ed efficiente gestione dell’impresa.
La Corporate Governance è un aspetto cruciale per lo sviluppo dell’impresa nel tempo e anche se può sembrare un argomento dedicato ad addetti ai lavori, ne parlano tutti. Negli ultimi tempi se ne parla molto soprattutto in virtù del rinnovato interesse verso la sostenibilità dell’azienda, in particolare riguardo ai criteri ESG (Environmental, Social, Governance).
Dal mio punto di vista, la parola d’ordine in tempi come questi è “lungimiranza”, nel duplice significato di attenzione e di prudenza. Una combinazione che inizia dal dotare l’impresa di sistemi di governo adeguati ad affrontare i rischi generati dal contesto, in termini di processi, struttura operativa e di controllo, nonché di competenze. L’obiettivo è arrivare velocemente a una fase decisionale il più consapevole possibile.
“Il Consiglio deve infatti disporre velocemente di informazioni sintetiche, sempre aggiornate, verificate e focalizzate sugli argomenti importanti”
Una buona struttura di governance è un obiettivo che vale anche per le imprese di medio-piccola dimensione, spesso restìe a investire in tal senso. Le grandi imprese sono in media le più evolute, sia perché devono confrontarsi con rischi e complessità superiori, sia perché nella maggior parte dei casi sono società quotate sui mercati regolamentati e devono quindi rispettare obblighi precisi stabiliti dagli organismi di vigilanza nazionali e internazionali. In materia di governance, le grandi imprese potrebbero quindi fungere da modello per quelle più piccole che ambiscono a crescere nel tempo e ad affermarsi sul mercato.
Se dovessi esprimere la mia visione di governance lungimirante per il futuro, la abbinerei a tre parole: semplificazione, dialogo, stakeholder.
Figura 1: esempio di documentazione ridondante e inutile per la riunione di un Consiglio di Amministrazione
La semplificazione delle procedure è, a mio avviso, un presupposto indispensabile per una governance efficiente che permetta al Consiglio di Amministrazione di lavorare e di fornire gli indirizzi di gestione nel modo più veloce e funzionale possibile. Semplificare le procedure deve avere come fine la costruzione di un flusso informativo rapido e di qualità a favore degli organi di governo. La qualità dell’informazione al CdA è infatti un aspetto su cui ho sempre lavorato molto nel mio ruolo di Presidente di grandi imprese, dal farmaceutico, dall’editoria, al settore bancario e finanziario.
Il Consiglio deve infatti disporre velocemente di informazioni sintetiche, sempre aggiornate, verificate e focalizzate sugli argomenti importanti, in modo da ridurre il tempo speso in letture di memorie spesso ridondanti e da cui è difficile estrapolare gli elementi importanti ai fini decisionali. Ciò significa, nella pratica, predisporre strutture a supporto del CdA in grado di dare il giusto focus agli argomenti di volta in volta importanti e capaci di approfondirli evidenziando gli aspetti di rischio e di soluzione maggiormente necessari per la discussione e la delibera in Consiglio.
Approntare un flusso informativo di qualità, mi rendo conto, è un passo che richiede un investimento importante da parte dell’azienda in competenze tecniche, legali e comunicative, ma è un passo in grado di garantire per lungo tempo ritorni concreti in termini di migliore gestione dei rischi e maggiore competitività sul mercato. Addirittura, in situazioni di contesto di particolare gravità, può essere uno strumento di difesa importante, che può fare la differenza per la sopravvivenza dell’impresa.
Il dialogo, quello interno, è invece un fattore fondamentale per il buon funzionamento della macchina aziendale, sia a livello decisionale, sia operativo. Come è facile immaginare, la buona qualità dei rapporti interni, al pari della qualità informativa, garantisce chiarezza di obiettivi, condivisione delle strategie e fluidità nei processi operativi.
“Il ruolo del Presidente diventa centrale nel mantenere gli equilibri, nel dare supporto al top management e nel promuovere nuove prassi snelle, che agevolino la celerità delle decisioni”
Negli anni in cui sono stato presidente di UniCredit, ricordo che mi sono adoperato moltissimo per snellire i processi informativi rivolti al CdA, per allineare le strategie cercando sempre l’equilibrio fra le esigenze degli azionisti, degli altri stakeholder e di quelle della banca, ma anche per organizzare momenti di arricchimento in seno al Consiglio, portando esperti di vari ambiti che potessero fornire nuovi spunti e visioni del futuro utili a favorire il progresso dell’azienda.
Penso sia questa la parte più delicata del ruolo del Presidente di una public company, che non deve, a mio parere, condizionare troppo il top management o entrare nelle scelte di gestione di sua esclusiva competenza, ma deve piuttosto occuparsi di tutto ciò che è “a monte” dell’operatività e occuparsi innanzitutto della strategia a lungo termine. Permettere a consiglieri e management di svolgere il proprio lavoro nelle migliori condizioni, significa anche essere disponibili a un confronto costante con loro.
Infine, gli stakeholder, ovvero i portatori di interesse dell’azienda, i veri protagonisti della vita dell’impresa. Sono loro che permettono alla macchina aziendale di esistere e di funzionare. Sono i clienti, i fornitori, gli azionisti, sono i colleghi che lavorano in azienda a tutti i livelli, sono le istituzioni (a cominciare dal fisco) e il mercato in generale. Si tratta di un insieme di relazioni, spesso intrecciate fra loro, che l’azienda intrattiene con il mondo esterno e interno.
La fluidità e la buona qualità di queste relazioni sono, a mio avviso, il più potente fattore protettivo dell’impresa, così come – viceversa – relazioni approssimative o sfilacciate costituiscono un fattore di rischio, anche importante, per la sua stessa sopravvivenza. La necessità di investire nella cura dei rapporti con gli stakeholder sta diventando sempre più pressante, specialmente oggi che lo scenario è molto instabile ed estremamente fragile. Si tratta di un compito che coinvolge, a titolo diverso, praticamente tutte le funzioni aziendali, a partire da quelle di governo: è vero che al Presidente spetta il ruolo di mediatore fra gli interessi espressi nel Consiglio di Amministrazione, ma è altrettanto vero che un cliente si guadagna o si perde allo sportello di una filiale.
Ogni persona dell’azienda si relaziona con il mondo che ruota intorno all’impresa e, di fatto, ha la responsabilità della cura dei rapporti che intrattiene. Compito degli organi di governo è, non solo dedicare attenzione alle relazioni direttamente sotto la propria responsabilità, ma anche garantire che le persone a vari livelli incaricate possiedano gli strumenti e le competenze indispensabili per una efficace collaborazione con gli stakeholder dell’impresa.
“La necessità di investire nella cura dei rapporti con gli stakeholder sta diventando sempre più pressante, specialmente oggi che lo scenario è molto instabile ed estremamente fragile”.
La corporate governance è materia complessa, è vero. Pensare al futuro nei termini che ho qui esposto, credo sia oggi l’unico modo per affrontare le avversità e competere nel tempo sui mercati nazionali e internazionali.
Il futuro è oggi, e l’oggi è un divenire inarrestabile. Mi piace spesso dire che “ogni giorno ci addormentiamo più ignoranti (nel senso letterale della parola, ovvero il non sapere) di quando ci siamo svegliati al mattino”, perché il mondo, fatto di progresso, di sapere e di accadimenti, non si ferma mai. Diamo ai Consigli di Amministrazione competenze multidisciplinari, visione e impegno. Usiamo bene il presente, soprattutto quando abbiamo la responsabilità di governare un’impresa, dalla cui prosperità dipende il futuro delle persone che vi lavorano e che vi gravitano intorno, a iniziare dagli azionisti.

Nato a Favara (AG) il 28 aprile 1935, Giuseppe Vita è laureato con lode in medicina con specializzazione in radiologia. Nel corso della sua carriera manageriale ha ricoperto numerosi incarichi di prestigio fra Italia e Germania. Dal 2012 al 2018 è stato Presidente di UniCredit S.p.A. In precedenza, è stato Presidente del Consiglio di Gestione della società farmaceutica Schering AG (Fino al 2001), Presidente di Allianz S.p.A., Deutsche Bank S.p.A., Banca Leonardo, Hugo Boss AG. E’ stato anche Consigliere di Barilla, Humanitas, Marzotto, Pirelli e RCS.
Oggi è Presidente della Fondazione Accademia La Scala, Presidente Onorario del gruppo editoriale Axel Springer SE, consigliere della Fondazione Deutsche Nationalstiftung e membro del Consiglio di Amministrazione dell’Istituto per gli Studi di Politica Internazionale (ISPI).
Dr. Giuseppe Vita su Wikipedia
Empatia e denaro
Un binomio imprescindibile nella relazione con il cliente.
Questo articolo è stato pubblicato da Harvard Business Review - Italia
Contributors:
Alessandra Irene Rancati - Founder di Kindacom Scrittura Strategica.
Elena Pattini - PhD, Psicologa e VP Comitato Scientifico Kindacom Scrittura Strategica.
È il 12 marzo 2020: le borse mondiali segnano cali che passeranno alla storia. La Borsa di Milano chiude a -16,92%, l’indice StoxxEurope600 a -11,2% e Wall Street a -9,99%. Precedono il crollo giornate difficili segnate da un crescendo di preoccupazione, finché la paura raggiunge il suo zenit non appena l’OMS dichiara urbi et orbi l’inizio della pandemia. La situazione da critica diventa ufficialmente drammatica: il Covid-19 è diventato un problema mondiale.
Iniziano i lockdown e l’economia chiude per virus, mentre i mercati finanziari cercano rassicurazioni da Governi e banche centrali, anch’essi, però, ancora con il fiato corto. Ansia e incertezza hanno ormai trasformato la paura in panico, innescando uno tsunami di vendite sui mercati. Gli indici di Borsa si muovono in base allo stato di salute dell’economia, in base alla stabilità politica, alle aspettative degli operatori economici, agli equilibri geopolitici, ma si muovono anche in base all’emotività degli operatori e dei risparmiatori. Aspetto, quest’ultimo, da non sottovalutare. Non a caso, gli effetti delle emozioni sui processi decisionali in condizioni di incertezza sono oggetto di indagine già dalla fine degli anni ‘70, quando la pubblicazione della Prospect Theory di Daniel Kahneman e Amos Tversky ha dato avvio alla finanza comportamentale.
Un interessante ambito di ricerca che, negli anni, si è arricchito di nuovi studi e nuove evidenze che descrivono e cercano di spiegare i comportamenti non sempre razionali degli individui nelle loro decisioni economiche. Si tratta di nozioni che non possono non far parte del bagaglio formativo di chi si occupa di consulenza in materia di investimenti. E chi fa questo lavoro sa bene che ansia e paura sono gli stati emotivi dei clienti – risparmiatori più difficili da gestire, perché capaci di portare a scelte che, quasi sempre, si rivelano sbagliate.
Tra marzo e aprile 2020 ansia e paura raggiungono livelli eccezionali. La pandemia colpisce contemporaneamente tutti i pilastri della nostra vita – salute, lavoro, risparmi – portando l’incertezza ai massimi e facendo così esplodere l’avversione al rischio che, tradotto, significa immediato smobilizzo degli investimenti.
La paura è infatti un potente distruttore di fiducia, in un settore, quello della gestione dei risparmi, in cui la fiducia è tutto. Irrazionalità e comportamenti conservativi da parte dei clienti-risparmiatori possono trasformarsi in fenomeni di panic selling e in comportamenti di rinuncia verso gli investimenti, preferendo l’accumulo di liquidità improduttiva, a scopo cautelativo. La paura annienta qualsiasi volontà di progettazione di lungo periodo. L’obiettivo diventa proteggersi, perché nella nostra mente, il dolore di una eventuale perdita è due volte più potente del piacere di un eventuale guadagno di pari entità, come dimostrato dagli studi di Kahneman e Tversky.
Pensando ai consulenti finanziari, dobbiamo considerare anche l’ulteriore difficoltà legata al distanziamento fisico, imposto dalle norme anti-contagio, che impone di seguire i clienti a distanza attraverso gli strumenti tecnologici. Cosa che fa perdere, così, gli aspetti più rassicuranti della relazione in presenza. Tuttavia, il consulente deve comunque aiutare il cliente a rimanere lucido, anche nelle situazioni più estreme. Come fare?
Neuroscienze ed economia
La Prospect Theory è stata solo l’inizio di una proficua collaborazione fra l’economia e le scienze sociali. Negli anni, questo processo di contaminazione si è allargato, coinvolgendo la ricerca neuroscientifica, serbatoio sempre più importante di scoperte utilissime in campo economico. Infatti, lo studio del funzionamento del nostro cervello fornisce importanti indicazioni per comprendere determinati comportamenti, anche in ambito finanziario. Di particolare valore pratico, quindi, anche per chi lavora nel campo della consulenza rivolta agli investimenti.
Partiamo dalla reazione del nostro cervello di fronte all’eventualità di perdite finanziarie. Un recentissimo studio dei ricercatori della Higher School of Economics, all’interno dell’Institute of Cognitive Neuroscience (ICN) di Mosca, pubblicato nel 2020 su Scientific Reports, ha mostrato sperimentalmente come le attività economiche possano attivamente cambiare le nostre connessioni cerebrali a livello della corteccia. Nell’esperimento condotto da Aleksei Gorin e da Anna Shestakova, i segnali che predicevano una regolare perdita finanziaria provocavano cambiamenti a livello neurale, rendendo più attive le aree cerebrali coinvolte nella discriminazione di quei segnali. Di conseguenza, gli stessi segnali venivano meticolosamente processati a livello fisiologico in modo da identificare quelle situazioni in modo più accurato.
Questo significa che, a livello cerebrale, impariamo a riconoscere i segnali, a volte anche neutri, che potrebbero significare una perdita finanziaria in base a esperienze precedenti o a timori legati al contesto in cui si è immersi. Di conseguenza, questo provoca una serie di ricadute a livello decisionale, comunicativo e interpersonale.
I risultati di questo esperimento suggeriscono che le esperienze legate alle decisioni finanziarie possono produrre cambiamenti fisiologici nel nostro cervello e che possono alterare il modo in cui i segnali esterni vengono percepiti, rendendo le persone più sensibili a certi stimoli piuttosto che ad altri. La misura effettiva di questa sensibilità varia poi a livello individuale. A questo punto, il ruolo del consulente diventa cruciale. Tocca, infatti, a lui capire quali segnali attivano la paura per quel determinato investitore. Un’informazione che può essere correttamente acquisita solo dedicando tempo e cura a quel particolare cliente per costruire una relazione di fiducia con lui. Un rapporto fondato sulla fiducia e privo di una emozionalità negativa diventa una cornice fondamentale, affinché le decisioni prese da clienti e investitori non siano viziate da distorsioni cognitive, il più delle volte involontarie, che possono compromettere una presa di decisione più obiettiva e lungimirante.
Il ruolo della fiducia. La fiducia è un processo e si costruisce nel tempo con competenza e sistematicità. Nella consulenza, questo significa avere l’energia per dedicarvisi, avendo chiari gli strumenti relazionali da utilizzare. Questo è un vincolo che deve essere preso in considerazione nella determinazione del criterio di dimensionamento del portafoglio clienti di ogni consulente. Infatti, se il numero dei clienti da seguire fosse troppo elevato, un consulente non avrebbe materialmente il tempo di costruire solidi rapporti di fiducia, cosa che ridurrebbe sia il valore del suo servizio che la propria percezione di efficacia.
La fiducia si struttura attraverso la costruzione di empatia nella relazione e diventa un fattore di successo decisivo. In questo processo, le capacità empatiche risultano essere la chiave di volta per aumentare la sintonizzazione con le modalità di pensiero della persona che abbiamo davanti e per aumentare la percezione di affidabilità.
Percepire l’affidabilità del consulente. A livello cerebrale, la percezione di affidabilità – o il suo contrario – dipendono anche dal livello di attivazione dell’amigdala, situata nella parte dorsomediale del lobo temporale del cervello che gestisce le emozioni e in particolar modo la paura (Sah, 2017). Nell’amigdala, tuttavia, sono presenti molti recettori dell’ossitocina, un neuropeptide che viene liberato in situazioni socio emozionali che hanno a che vedere con la vicinanza e con l’affettività (pensate agli abbracci, per esempio) e in tutte quelle situazioni in cui ci sentiamo accolti e in cui sentiamo l’interlocutore essere empatico, cioè in grado di ascoltarci e di comprendere le nostre emozioni. L’ossitocina, quando si lega ai suoi recettori presenti nell’amigdala, ripristina la sensazione di fiducia (Baumgartner, 2008), antidoto alla paura, così fondamentale in contesti incerti e insicuri come quello attuale. Da questo, si evince l’importanza di creare contesti relazionali caratterizzati da autenticità, da emozionalità positiva e da empatia. Anche in un ambito quantitativo e modellistico come la gestione degli investimenti.
L’empatia nella consulenza. Già nel bestseller The Trusted Advisor, David Maister definiva l’empatia come il più potente strumento di fidelizzazione del cliente, insieme ovviamente alla competenza di settore. Per i consulenti, questo significa dedicare tempo a conoscere le dinamiche decisionali dei loro clienti, che dipendono da caratteristiche individuali ed esperienze pregresse. Per farlo, l’empatia diventa lo strumento principe. Infatti, la persona che si sente accolta e ascoltata e che sente vivo l’interesse del consulente per le sue esigenze, sarà sicuramente più incline a fornire maggiori dettagli sulle proprie opinioni e sui propri desideri. Il servizio di consulenza sarà, quindi, più personalizzato perché il consulente potrà valutare con più accuratezza gli strumenti comunicativi verbali e non verbali da utilizzare in quella determinata situazione.
L’indagine dell’Associazione Italiana Private Banking
Per capire sul campo come la consulenza finanziaria ha vissuto l’emergenza, abbiamo chiesto il parere dell’Associazione Italiana Private Banking (AIPB) che, grazie alla sua posizione privilegiata di osservatorio di settore, ci ha fornito informazioni molto interessanti. «Nel complesso, i riscontri sono stati positivi, ma non mancano gli spunti di riflessione. C’è da dire che il private banking è un settore di per sé già molto attivo sul fronte dell’innovazione del modello di servizio. La pandemia non ha fatto altro che accelerare questo processo», rileva Antonella Massari, segretario generale di AIPB.
Da quanto emerge dalla 15° indagine AIPB sulle famiglie private, che interroga i clienti sul servizio ricevuto nel 2020, risulta che, in generale, sia la banca, sia il consulente sono riusciti a dimostrarsi vicini ai clienti durante la pandemia. Va però osservato che i clienti con patrimoni importanti partono da un grado di soddisfazione molto alto circa la relazione con il proprio consulente (Figura 1).
Ricordiamo che durante il periodo più intenso dell’emergenza, anche i consulenti privatehanno dovuto trasferite sul piano virtuale i contatti con i loro clienti. Nello specifico, oltre l’80% dei contatti sono avvenuti a distanza (principalmente attraverso il telefono). Questo passaggio per la maggior parte dei clienti è stato piuttosto indolore, solo il 20% di loro ha lamentato delle difficoltà. Il dato è positivo, ma non è tutto oro quello che luccica. Infatti, molti clienti potrebbero non aver percepito variazioni sostanziali rispetto al pre-pandemia (71%), perché nei contatti hanno prevalso gli aspetti più funzionali e meno relazionali. «Un fatto che può andare bene nel periodo limitato di una emergenza, ma nel lungo periodo può diventare un segnale di allarme, perché un rapporto quasi esclusivamente funzionale può nascondere una perdita di valore nel servizio», aggiunge Massari. In altre parole, la componente relazionale non può essere estromessa a lungo, altrimenti quale sarebbe la differenza fra un consulente e una macchina (Figura 2)?
Un aspetto, quest’ultimo, coerente con la percezione da parte dei clienti di un allentamento della relazione con il proprio consulente, tradottasi nella sensazione di un minor numero di contatti lungo tutto il 2020 (e non solo nei mesi emergenziali). In realtà, non c’è stata una diminuzione significativa dei contatti rispetto ai due anni precedenti, ma c’è stata la percezione che i contatti siano calati. È plausibile pensare che anche questa sensazione sia imputabile al minor peso della componente più relazionale del servizio di consulenza, a dimostrazione di quanto questo aspetto sia legato alla percezione di qualità del rapporto (Figura 3).
Prospettive
Abbiamo visto che il supporto relazionale è il più forte antidoto contro ansia e paura. Lo confermano le neuroscienze e, in parte, lo conferma anche l’esperienza portata da AIPB, dove la maggior parte dei clienti ha apprezzato l’assistenza ricevuta dai consulenti durante l’emergenza. Tuttavia, interrogati sul futuro, i clienti private sottolineano, in massa (83%), la necessità di consulenti più preparati sugli aspetti non strettamente finanziari e più relazionali del rapporto di consulenza, indispensabili per aiutarli a comprendere la realtà presente. Fra questi, empatia, relazionalità e attenzione verso il cliente avranno un’importanza crescente (77%) (Figura 4).
«Anche in futuro non si potrà prescindere da una relazione a distanza, e tanto meno si potrà prescindere da una sempre maggiore competenza, attenzione e sensibilità da parte del consulente. Guarda caso, questi sono proprio gli aspetti ritenuti non completamente all’altezza in questo periodo», conclude Antonella Massari.
Come si può vedere, l’indagine conferma un crescente valore attribuito dai clienti agli aspetti più relazionali del servizio di consulenza. In quest’ottica, la rivoluzione copernicana nel mondo del business è pensare l’empatia non più come una competenza trasversale, una soft skill, lasciata alle peculiarità del singolo professionista, ma come una vera e propria hard skill su cui essere formati in modo sistematico.
Le neuroscienze, attraverso la scoperta dei neuroni specchio (Rizzolatti e Craighero, 2004) – ovvero quei neuroni che ci permettono di sentire ciò che sente un’altra persona, attivando le stesse aree cerebrali che attiveremmo se fossimo noi a provare quell’emozione, pur con la distinzione tra noi e l’altro (Iacoboni, 2008) – ci dicono che siamo strutturati per essere in relazione. Ignorare questa consapevolezza significa tradire la nostra natura di esseri umani sociali e arrivare a spegnere quei circuiti cerebrali che sono alla base dei comportamenti empatici, con la conseguente fatica relazionale che è così frustrante per il professionista e per il cliente e che ha come esito, oltre a un malessere personale, un peggiore risultato dal punto di vista finanziario. Perciò, accostare i termini “empatia” e “denaro” non suona più come un ossimoro, ma come una necessità.
La finanza, per essere empatica, richiede competenze specifiche in grado di portare cambiamenti strutturali nel modo di interpretare la relazione con il cliente in chiave di prossimità, ascolto e fiducia. Anche perché, costruire relazioni di empatia con il cliente significa costruire benessere in ottica di reciprocità, in presenza e a distanza. L’empatia è la modalità migliore per soddisfare i propri bisogni di rassicurazione e guadagno. Soprattutto, quando paura e incertezza dominano i contesti economici e personali.
È il tono che fa la musica: l’importanza di comunicare in modo più umano attraverso i testi
Questo articolo è stato pubblicato da Ottosulblog
Contributors:
Silvia Castrogiovanni – Founder Kindacom.
Può il modo in cui scriviamo un testo cambiare la percezione che si ha leggendolo?
La risposta è affermativa: sarà capitato ad ognuno di noi, trovandosi di fronte ad un’email, un sms o un copy post per i social media, di osservare come punteggiatura, maiuscole e minuscole, grassetti, l’inserimento di emoticon e l’attenzione alla sintassi siano tutti elementi imprescindibili per comprendere e interpretare l’intento e il tono intrinseco ad un messaggio. D’altronde, come ricorda un noto modo di dire, è proprio il tono – la forma, il contesto che arricchisce di sfumature e significato frasi, parole, testi – a fare la musica, a dare un senso a ciò che leggiamo.
In un periodo in cui gran parte della popolazione mondiale si è dovuta abituare a comunicare e mantenere vive le relazioni attraverso chat, social media o sms, quindi veicolando informazioni, stati d’animo e messaggi prima di tutto in modo scritto, ecco che la capacità di scrivere in modo chiaro, empatico e autentico assume un ruolo di fondamentale importanza, non solo in ambito strettamente lavorativo.
Per questo motivo, abbiamo contattato Silvia Castrogiovanni, Founder insieme ad Alessandra Rancati di Kindacom, azienda di Comunicazione Executive e Alta Formazione specializzata in Scrittura Strategica: una realtà che unisce competenze umanistiche e know how neuroscientifico per produrre contenuti di alta qualità e renderli fruibili in messaggi di comunicazione e in attività formative, attraverso una metodologia esclusiva e originale.
Come spiega Castrogiovanni, “la mission di Kindacom è rivolgersi alle neuroscienze per costruire contenuti più umani e più inclusivi, da utilizzare per la comunicazione degli executive e per l’alta formazione”.
Come opera Kindacom per aiutare concretamente le persone, in ambito lavorativo e non, a comunicare in modo più empatico e con focus sulla creazione di relazione?
Alla base della nostra attività c’è la convinzione che la qualità delle relazioni interpersonali abbia un impatto decisivo sulla qualità della vita e del lavoro. Crediamo che l’empatia e la capacità di sviluppare relazioni di fiducia siano competenze indispensabili nel contesto e nel mercato attuale. Infatti, la scoperta dei neuroni specchio, fatta dal Prof. Giacomo Rizzolatti, ci dice che noi siamo relazione. Per questo motivo, i nostri sforzi sono concentrati ad offrire alla persona-cliente, sia esso un’impresa o un professionista, strumenti utili per una buona comunicazione e gestione delle sfide relazionali della vita personale o lavorativa.
Consapevoli del valore dell’empatia nel curare la comunicazione executive, puntiamo ad umanizzare lo speech writing attraverso formule che rendano i contenuti coinvolgenti e accoglienti, oltre che efficaci. Il nostro lavoro è inoltre rivolto a progettare eventi divulgativi e formativi finalizzati ad ibridare la cultura aziendale e l’esperienza del cliente con le straordinarie scoperte e applicazioni delle neuroscienze. Affianchiamo, così, l’impresa nel direzionare i comportamenti verso obiettivi più ambiziosi nel contesto di una maggiore cura del benessere della persona e delle sue relazioni.
Poter contare su un comitato scientifico interno al cui capo è il Prof. Giacomo Rizzolatti è un plus unico nel settore per una consulenza a trazione neuroscientifica. Qual è il contributo, il vantaggio di affidarsi alle neuroscienze come strategia e approccio?
Fin dall’inizio, la presenza attiva del Prof. Rizzolatti, Presidente del nostro Comitato Scientifico e scopritore dei neuroni specchio, ha rappresentato, oltre che un cardine, anche una solida base per il nostro lavoro. Costruire la consulenza aziendale e formativa adottando la prospettiva neuroscientifica significa portare evidenze concrete di quanto la relazione che ci lega agli altri sia fondamentale e basilare, a partire dalla nostra neurobiologia.
Le neuroscienze ci permettono, infatti, di compiere il primo passo verso il cambiamento. È grazie alla conoscenza che raggiungiamo consapevolezza di come funzioniamo, per poterci manifestare al meglio nella nostra vita personale e professionale.
Il nostro obiettivo è quindi portare la scienza fuori dal laboratorio per renderla fruibile e per declinarla in pratiche concrete in tutti contesti organizzativi, basandoci sull’eterogeneità distintiva del nostro Comitato Scientifico composto da tre pilastri: neuroscienze, scienze economiche, etologia. Infatti, l’etologia ci aiuta a leggere i comportamenti, le neuroscienze a spiegarne i meccanismi cerebrali e l’economia a trovare le migliori applicazioni pratiche per i diversi contesti aziendali.
Partire dalla scienza significa quindi per noi garantire affidabilità ed efficacia, rispondendo in modo completo e mirato alle richieste emergenti del nostro tempo.
Come cambia la nostra percezione di un testo in base al modo in cui è scritto/ci viene presentato (es. la mancanza di punteggiatura o il solo uso delle maiuscole)?
Una delle caratteristiche che distingue il linguaggio scritto da quello verbale è la sua flessibilità. Ciò che scriviamo, a differenza di ciò che diciamo, può essere con facilità modificato o perfezionato nella forma o nei contenuti. Questo può essere un grande vantaggio dal momento che ci permette di esprimerci al meglio e ottimizzare la nostra interazione con l’altro, servendoci di contenuti, espressioni o parole che suscitino empatia.
Dal punto di vista dei contenuti, l’uso narrativo della storia, ad esempio, appare uno strumento strategico per veicolare in modo efficace un messaggio e impattare sul lettore, anche attraverso i social. Un intero corpo di ricerche ha approfondito l’argomento e ha dimostrato che nel nostro organismo si generano veri e propri cambiamenti neurochimici in risposta alla presentazione in forma visiva o scritta di storie (Zak, 2015).
Questi cambiamenti coinvolgono il rilascio di ossitocina, l’ormone definito “dell’amore” poiché coinvolto nelle interazioni sociali più psicologicamente calde come la relazione madre-bambino, l’allattamento o il legame tra partner. Le storie, in altre parole, non solo catturano la nostra attenzione, ma ci fanno sentire bene, accolti e compresi e diventano quindi una leva importante sulla quale agire per relazionarci in modo empatico con il lettore.
La cornice della punteggiatura e della forma grafica delle parole infine sono un’altra essenziale strategia per dare tono al messaggio e trasmettere messaggi comprensibili e non equivoci.
Attraverso una buona e ponderata punteggiatura il lettore ha la possibilità di sentirsi maggiormente sintonizzato con l’autore del testo. Al contrario una punteggiatura eccessiva o insufficiente rappresentano espressioni piuttosto individualizzate dell’emotività e si prestano meno ad essere condivise con l’altro, generando, di conseguenza, un minor coinvolgimento e minor empatia (Otterbach J. et al., 2016).
L’uso di testi scritti in maiuscolo, invece, elicitando le aree visive primarie anziché le aree premotorie e specificatamente dedicate alla comprensione del testo scritto, sembra interferire con la stessa comprensione del testo (Choi et al., 2017).
È possibile evocare empatia attraverso un testo sui social? Se sì, quali elementi hanno maggior presa e successo e riescono a comunicare maggiore autenticità?
Certamente, è possibile. È sempre più necessaria l’abilità di comunicare empatia attraverso canali di dialogo virtuali come chat, messaggi, copy. E di fronte a questa aumentata richiesta diventa sempre più importante comprendere come sia possibile stabilire anche attraverso la tecnologia una efficace forma di rispecchiamento.
Evocare empatia attraverso un testo significa scegliere con cura i contenuti e la forma del proprio messaggio, consapevoli che la mancanza di tridimensionalità (corpo e voce) tende a ridurre il grado di rispecchiamento interpersonale.
A tale scopo:
- Puntare su comunicazioni brevi, enfatiche e narrative ha numerosi vantaggi.
- Molto utile è l’utilizzo delle emoticon, che in maniera istantanea e potente veicolano significati emotivi e creano un legame autentico con l’esperienza dell’altro.
- È altrettanto noto come alcune espressioni testuali metaforiche che coinvolgono i cinque sensi (ad esempio, “toccare con mano”, “non ti accarezza l’idea…) suscitino l’attivazione della corteccia somatosensoriale e determino quello speciale effetto di “sentire” le parole che leggiamo, contribuendo all’esperienza di rispecchiamento (Lacey S., Stilla R., Sathian K., 2021).
- Una comunicazione mediata dalla tecnologia è quindi tanto più di successo quanto più è in grado di trasmettere relazionalità, aumentando la percezione di interazione umana (emoticon o espressioni metaforiche).
Causa pandemia, nell’ultimo anno le relazioni fisiche con amici, parenti, colleghi per lunghi periodi si sono tramutate in call, sms, messaggi in chat ed e-mail. Cosa ha comportato questo shift “obbligato”? La tecnologia, e il modo in cui comunichiamo tramite essa, può alterare il nostro modo di porci, relazionarci e reagire agli altri?
Il periodo di emergenza Covid-19 ha radicalmente trasformato la comunicazione sia nell’ambito privato che in quello professionale. Il cambiamento più forte e peraltro maggiormente sofferto è stato sicuramente quello della mancanza della corporeità.
Le neuroscienze ci dicono che siamo fatti per relazionarci dal vivo e che la presenza del corpo nella comunicazione interpersonale è un elemento essenziale per un rispecchiamento forte ed efficace. Il meccanismo specchio funziona in modo imprescindibile dalla rappresentazione corporea e questo ovviamente pone dei limiti e delle difficoltà nel contesto di una comunicazione mediata dalla tecnologia, nella quale l’esperienza tridimensionale e sensoriale del corpo si riduce fortemente.
Tuttavia la relazione empatica è trasversale e quindi presente anche in relazioni mediate da pc o telefono. Fare leva sul linguaggio e la testualità attraverso parole verbalizzate o scritte, sulla prosodia e sul tono della voce o sulla presentazione visiva di sé attraverso la webcam, rappresenta un ottimo modo per sostenere e costruire un buon contatto alternativo a quello fisico. Una ricerca ha ad esempio dimostrato come l’ascolto di parole produce un’attivazione fonemica specifica dei centri motori del linguaggio dell’ascoltatore, evidenziando quanto il semplice ascolto dell’altro, ad esempio in una call, possa essere un’attività di profonda sintonia e contatto interpersonale (Fadiga et al., 2002).
Ne deriva che prendersi cura e modulare gli aspetti solo apparentemente di cornice alla corporeità possa influenzare in maniera comunque determinante l’esperienza dell’altro nelle relazioni, e possa contribuire a portarle nelle direzioni per noi maggiormente di valore.
Rispetto al passato, sono cambiate le richieste di consulenza, anche in base alla situazione che ancora stiamo vivendo?
Le richieste di consulenza seguono sempre il contesto e questo periodo non ha fatto eccezione. A tutti noi è stato urgentemente richiesto di rivedere le nostre risposte e le nostre abitudini. È quindi mutato il contesto delle relazioni personali, ma non solo.
Anche il mondo del management e quello della comunicazione executive si sono posti nuovi e strategici obiettivi. Da una parte sviluppare in modo sistematico e attraverso strumenti affidabili ed efficaci, una cultura d’impresa basata sull’empatia che, prima di tutto, coinvolga la leadership e, a cascata, le altre risorse umane.
L’obiettivo è costruire e cementare i rapporti di fiducia e di collaborazione, che si riflettono poi sulla produttività.
Dall’altro lato, per quanto concerne la comunicazione executive, la necessità di distinguersi lasciando il segno dal punto di vista dei contenuti e della possibilità, attraverso la comunicazione empatica, di raggiungere, coinvolgere ed infine fidelizzare l’audience. Anche, e soprattutto in questo periodo, attraverso il video.
Si può affermare che dopo un anno contraddistinto da distanziamento sociale e chiusure, l’attenzione degli utenti web si è rivolta ancora più convintamente verso contenuti autentici, umani, quindi empatici?
Certamente. La pandemia e le conseguenze subite a livello interpersonale hanno costretto tutti noi, in un modo o nell’altro, a sacrificare in diversa misura la nostra vocazione umana, ossia la relazione con l’altro.
Ciò che è emerso con grande forza è che non solo abbiamo bisogno dell’altro, ma che ne necessitiamo in modo autentico e umano. Il bisogno netto è stato quello di recuperare un contatto che fosse maggiormente coinvolgente, prossimo e multisensoriale.
La deprivazione delle relazioni corporee e di vicinanza ha quindi fatto emergere un bisogno, ma prima di tutto, una consapevolezza: quella di essere programmati biologicamente per entrare in contatto con l’altro. A questa consapevolezza è saggio far seguire, anche e soprattutto nel mondo virtuale, azioni concrete che vadano verso l’umanizzazione, la multidimensionalità e l’autenticità delle relazioni mediate.
Perché sul web si cercano felicità, empatia e speranza
Questo articolo è stato pubblicato da Corriere Salute - Corriere della Sera
Contributors:
Elena Pattini Vice-Presidente del comitato scientifico Kindacom.
Siamo nati per essere in relazione gli uni con gli altri. Questi lunghi mesi ci hanno costretto a modificare la nostra natura in nome della nostra sicurezza e di una reciproca tutela e ci hanno riportato alla primaria condizione dell’uomo: la fragilità e non più la potenza. Ci siamo mossi tra il timore del contatto e la sua astinenza, uniti attorno alla paura nei primi mesi confusi della pandemia, paura che per alcuni si è trasformata in rabbia nelle settimane appena trascorse di chiusura. L’emozione condivisa, anche quella negativa, è sempre lo strumento per vincere la solitudine e il senso di impotenza.
Occorre ripartire dalle fondamenta di questa necessaria connessione tra gli individui in modo da risanare un tessuto sociale piuttosto scucito. Occorre ripartire dall’empatia, intesa come sentire comune e come riconoscimento della somiglianza emozionale tra le persone. Gli strumenti per diventare più empatici e autentici risiedono essenzialmente nell’area dell’attenzione, del linguaggio, della gestualità e della consapevolezza. Per essere empatici occorre rivolgere il nostro sguardo realmente all’altro, parlare con qualcuno non significa davvero «vederlo», dobbiamo fermarci e ripulire il campo dall’ eccesso di informazioni e soprattutto dalla fretta, azzerare il rumore e prendersi il tempo dell’ascolto profondo, in modo da mettere al centro non il sintomo, la malattia o il problema, ma la persona.
Le parole che dobbiamo scegliere sono quelle che esprimono comprensione dello stato mentale e affettivo dell’altro, un «mi dispiace» può essere in alcuni contesti potentissimo, ma solo se accompagnato dalla nostra emozione, altrimenti rischia di essere sterile. Inoltre, dobbiamo mostrare coerenza tra la nostra comunicazione non verbale, come il tono di voce, l’espressione del viso o i gesti, e quella verbale; quando si osserva uno scarto tra le due si tenderà sempre a fare affidamento su quella non verbale, che è più difficile da controllare e che per questo mente meno, l’incoerenza tra questi canali genera ambiguità e poca autenticità, nemiche dell’empatia. Infine, occorre essere consapevoli di come funzioniamo nei rapporti con gli altri, di quali sono le corde che toccate ci predispongono al conflitto, all’attivazione del pregiudizio, o più semplicemente rischiano di farci riversare sull’altro sentimenti ed emozioni legati alla nostra storia personale.
Dobbiamo sapere riconoscere quali bisogni vogliamo soddisfare nelle nostre relazioni, ad esempio se abbiamo un alto bisogno di riconoscimento saremo più sensibili a contesti relazionali in cui ottenere apprezzamento e validazione. Svelare dentro di noi questi meccanismi può aiutarci a evitare fraintendimenti, colpevolizzazioni, rabbia e bassa autostima, in modo da porci nelle condizioni migliori per creare rapporti interpersonali ricchi ed autentici. Interessante sapere che nel 2020, nei Google Trend a livello mondiale, tra le parole più ricercate con una frequenza fuori dalla norma siano comparse «felicità», «empatia» e «speranza», segno inconfutabile di un bisogno fondamentale, legato in parte al mondo interiore dell’essere umano e in parte alla connessione profonda tra le persone. Per anni abbiamo messo l’uomo e la sua individualità al centro di tutto, è ora di fare una nuova rivoluzione copernicana e mettere al centro la relazione.
Tra regole “fit and proper”, digitalizzazione, mobilità sostenibile ed economia circolare.
Che cosa si può imparare da questa emergenza e come sarà il mondo quando sarà superata?
Ad aiutarci a rivolgere lo sguardo al futuro dell’economia sono le riflessioni e le raccomandazioni di Cristina Finocchi Mahne, economista aziendale, Consigliere di amministrazione e Presidente anche di Comitati endoconsiliari di società quotate in Italia e all’esterno, nonché membro del Comitato Scientifico di Kindacom.
Nel panorama che si sta delineando tre sono gli aspetti fondamentali su cui Cristina Finocchi Mahne concentra le sue riflessioni e propone spunti di crescita:
- La competenza e l’esperienza della classe dirigente politica
- Lo sviluppo di best practice in campo digital
- L’orientamento al Green Deal, alla produttività ecologica e alla mobilità sostenibile
Questo momento è una grande ed unica occasione per ripensare il nostro sistema.
Un’occasione per puntare alla costruzione di una società economica aperta e flessibile orientata alle competenze, alla digitalizzazione e alla sostenibilità. Ma anche un’occasione unica per spingere l’acceleratore su nuove strategie di crescita economica, attraverso il passaggio a un’economia pulita e circolare.
Come potrebbe essere quindi il mondo alla fine di questa emergenza? Certamente un mondo più equilibrato e sostenibile, se sapremo orientare il nostro impegno nella direzione giusta!
https://www.youtube.com/watch?v=lX741je8Zq4&t=7s
L’empatia fa bene al business e si può imparare.
This article has been published by World Economic Forum
Contributors:
Silvia Castrogiovanni - Founder Kindacom
Elena Pattini Vice Chairman, Kindacom Scientific Committee
- Empathy – the ability to detect and understand other people's feelings – can be improved through training and practice.
- In a professional context, improving empathy can reduce stress, build more positive relationships, and even boost revenues.
- Here's how leaders and managers can start to build more empathic environments at work.
Empathy, defined as the ability to detect other people's feelings, constitutes the basis for quality human relationships; however, it is often a capacity we are unable to exploit, mostly due to cultural constraints. This holds true in different social contexts, from personal to professional. However, our empathic capacities can be recruited and trained through constant practice, and become great resources for genuine and productive relationships.
Empathy, in fact, represents the antithesis of individualism, of abuse of power, and of disconnection among human beings – and these are the pillars of stressful environments filled with tension and social conflict.
Active listening with suspended judgment, attitude to observation, and conscious choice of the most appropriate verbal and non-verbal language are just some of the key ingredients of empathic relationships that comply with the values of authenticity and closeness.
Knowing and understanding what is happening in our brain and in the person with whom we interact is an essential prerequisite for training empathy and expressing it also within business realities. Investing time and energy in establishing positive and long-lasting relationships is a sustainable choice that pays back in the long term. An empathic environment can increase understanding among coworkers, quality engagement and leadership efficacy, and can improve relationships with clients and stakeholders. In this way, companies are less exposed to internal or external ‘attacks’, because they are ‘protected’ by a relational network of mutual trust and are more effective in achieving goals.
What is empathy? And how does it work?
Neuroscience offers strong evidence of the fact that we are all connected. The discovery of mirror neurons in the early 1990s by a team at the University of Parma led by Giacomo Rizzolatti provided scientific evidence that humans are biologically ‘programmed’ to connect with each other. Mirror neurons are brain cells that are activated both when we perform a motor act and when we see it being performed by someone else; in other words, they make human brains ‘tune in’ to each other. Remarkably, the same mechanism occurs both during the execution/observation of a motor act and during the expression/observation of emotions. In fact, the subjective experience of emotions (such as joy or pain) and the observation of someone else experiencing the same emotion activate overlapping brain areas, as if the observer was really feeling that emotion.
https://www.youtube.com/watch?v=rPVNAESOWSo&feature=emb_logo
Mirror neurons are, therefore, believed to be the building blocks of empathy. However, if the automatic activation of these shared representations of emotions was enough to induce empathy, we would be in permanent emotional turmoil. In contrast, it seems that we do not empathize all the time and that far from being automatic, empathy is instead explained by a complex set of cognitive and motivational factors. A deeper understanding of these factors can help us recruit and express our empathic capacities appropriately in everyday life and regenerate and nurture relationships in different personal and professional contexts.
From a professional point of view, the key point is to emphasize the importance of empathy in the company. Doing so will create a useful tool; the voluntary activation of empathic behaviors can transform exploitative and opportunistic relationships into more positive relationships in which people feel more valued and appreciated. This applies to any level, activity or sector. Let’s consider some examples.
How can managers who lead team members in a company deal with an emergency situation or difficult times at the workplace? How can leaders be empathetic in these circumstances? One of the best ways to show empathy is through conversation, for example by conveying clear messages in a sound relationship based on trust and confidence. It is of strategic importance to increase the value of each team member and listen to their feedback, acknowledging and empowering their role and expertise, so that everyone can feel valued within a trustful context.
https://www.youtube.com/watch?v=-DspKSYxYDM&feature=emb_logo
Let’s also think about financial consultants who have to deal with the irrational emotions of their clients during a stock market crash. This is a stressful situation that puts even the most expert financial consultant under pressure. Major financial operators confirm that those who show empathy and closeness to the client obtain the best results. During these critical situations, financial consultants should be more proactive with their clients, by reassuring them without underestimating or exaggerating the impact of the situation on their savings, and by ensuring constant support to help them overcome this moment of fear and impulsiveness. The goal is to help their clients make informed choices with the utmost clarity.
Another example comes from conversational marketing, where communication with customers to sell products takes place digitally, through online platforms. Obviously, remote communication – via, for example chat, mail, video chat or telephone – can easily generate many misunderstandings. This is a sort of mediated relationship where the physical presence of the operator, which carries the most effective communication messages, is missing. Expressing empathic capacities in this context means using appropriate language with the right tone of voice to better understand the customer's wants and needs. Also, the choice of the right words and even emoticons is key to achieve closeness with the customer during written communication. The use of empathy in these forms of remote communication is therefore a fundamental tool for establishing a closer relationship with customers in order to best meet their requirements.
Moreover, nowadays employees are often asked to achieve significant revenue goals in a short span of time, particularly sales representatives. Sales in the commercial sector are constantly under pressure, with increasingly ambitious budgets and shorter deadlines than ever. In this stressful environment, company leaders must be able to systematically welcome feedback from those employees on the frontline and offer them constant support with clear and fast suggestions and operational instructions. This will enable the establishment of empathic relationships that can ease tension and result in increased revenue.
In all these circumstances, empathy represents a really effective antidote against stress. It allows a better connection with clients and collaborators and it provides a way to create relationships based on trust, closeness and proactive behaviours with any partner. Unsurprisingly, empathy has been recognized as one of the key competencies for the future by the European Council.
Empathy, therefore, is a sustainability tool that can help us create a far better environment in which to live and work. It is both something we can learn how to use and a resource that we can use to learn.